Giulia e Filippo, una storia che è anche di tutti noi

In loro si sono riconosciuti quei tantissimi giovani che per mano alle loro fidanzatine hanno protestato, hanno manifestato, in nome di un amore sano, contro quell’esito crudele

«Chi può misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando questo si trova prigioniero e intrappolato nel corpo di una donna?» – si chiede Virginia Woolf in “Una stanza tutta per sé” a proposito di un’immaginaria sorella di Shakespeare, dotata e geniale come lui, ma alla quale le condizioni sociali non permettono di fiorire, e invece si trova incinta di un attore-regista che «ebbe pietà di lei», e lei «si uccise , una notte d’inverno, e venne sepolta a un incrocio, là dove ora si fermano gli autobus, presso Elephant and Castle».

Perché mi tornava sempre in mente, in questi giorni, riguardo alla tristissima vicenda di Giulia e Filippo, questa citazione di Virginia? Forse, perché, anche qui c’è un dislivello sociale: hanno studiato ambedue ingegneria, ma lei è una donna, e non può laurearsi prima di lui. Una donna deve essere sempre un gradino sotto, questa è l’implicita convenzione sociale («Non prenderti una moglie “studiata”» dicevano ai figli le mamme, in particolare del Sud). Le donne sempre oggetto, mai soggetto autonomo. Le donne per l’affetto, per la casa, per i figli. C’è bisogno, di una donna a fianco! Sempre “a fianco”…

Giulia stava creando la sua identità. Non negava il suo amore per Filippo (l’abbiamo sentito nelle registrazioni delle sue confidenze a un’amica, gli voleva bene, si preoccupava per lui), ma non riusciva a reggere la contraddizione tra la costruzione di sé stessa e il suo ragazzo che per troppo amore – sbagliato, perché possessivo, passionale – la controllava, la imprigionava. È successo a tante di noi ragazze di varie generazioni, con le famiglie, con i morosi: lacerazioni, strappi dolorosissimi per tutti, ma necessari per crescere, per fortuna con esiti non così disperati. Ferite, che abbiamo inferto e che abbiamo preso. Giulia colpita non lo insulta, gli grida con stupore «mi fai male!»: non è un mostro, è il suo ragazzo con cui si son voluti bene.

Questa tragica storia d’amore tra due, appena poco più che adolescenti, è diventata quasi un’icona, quante volte abbiamo visto apparire la foto dei due ragazzi abbracciati: due ragazzi qualunque, dalle belle facce intelligenti e pulite. In loro si sono riconosciuti quei tantissimi giovani che per mano alle loro fidanzatine hanno protestato, hanno manifestato, in nome di un amore sano, contro quell’esito crudele. Ho visto nel cortile della Casa del quartiere questi ragazzi e ragazze che preparavano insieme cartelli e striscioni contro la violenza e il femminicidio. Ho dovuto insegnargli io, disegnandolo, il cerchio femminista, perché non lo sapevano. «Adesso tocca a voi», ho detto loro. Ed è un percorso complesso, difficile, perché bisogna andare a fondo nelle dinamiche psicologiche e affettive, sia dei maschi che delle femmine, in modi diversi.

Cosa ha provato, cosa ha sentito il cuore di Filippo, in quelle tragiche ore della morte e della fuga? Non c’era in lui solo un cervello da ingegnere, c’era un cuore appassionato e che non aveva ancora imparato – come dobbiamo imparare tutti crescendo – a disciplinarsi, ad ingozzare i rifiuti e le sconfitte, a non urlare il binomio «mi ammazzo-ti ammazzo», a non farlo diventare un’azione, un gesto irreparabile.

Forse anche in lui, come nella immaginaria sorella di Shakespeare, c’era un dissidio fondamentale, un cuore intrappolato in un cervello troppo rigido, che a un certo punto è esploso… Provo un’infinita pietà per tutti loro, Giulia, con la giovinezza recisa, ambedue le famiglie, e il ragazzo Filippo, che anche lui ha sofferto e soffre, e tutta la vita dovrà portarsi addosso il lutto di un amore così spezzato.

Per gentile concessione del sito internet “La porta di vetro”(laportadivetro.com)