Costruiamo scuole, non muri
Le grandi questioni delle migrazioni e della demografia si intrecciano con lo stato del mercato del lavoro. Intervista con Michele Bruni, docente all’Università di Modena e Reggio Emilia
Nel prossimo futuro il mondo vedrà una marcata polarizzazione demografica: alla crisi di natalità nei Paesi del Nord farà da contraltare il boom demografico, soprattutto in Africa. E mentre nel Sud del mondo si farà fatica a trovare lavoro, nei Paesi più ricchi e avanzati scarseggerà la manodopera. Questa è la tesi del professor Michele Bruni (economista, membro del Centro d’analisi delle politiche pubbliche, docente presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia), intervistato per noi dal giornalista di “Report” Stefano Lamorgese. Una prospettiva che porta l’intervistato a valutare in 450 milioni i migranti internazionali dei prossimi 25 anni. «I migranti non sono persone che fuggono solo da guerre, da carestie e dalla mancanza di opportunità di lavoro, ma persone che vanno nei paesi dove esiste una carenza strutturale di lavoro”».
– Lei è un economista. Si occupa da decenni di politiche del lavoro. Con uno sguardo planetario, ha elaborato una lettura originale del problema dei migranti, molto diversa dall’approccio consueto…
«Il dibattito attuale, specie in Italia, è di livello molto basso e si fonda su un’analisi errata. È vero: i migranti internazionali si dirigono prevalentemente dai Paesi poveri ai Paesi ricchi, ma per spiegare il fenomeno non basta dire che fuggono dalla miseria e, più in generale, dalla mancanza di lavoro. Se la si vede così, dal lato dell’offerta di lavoro, allora avrebbero ragione i governi che cercano di respingerli. E invece hanno torto».
– Perché hanno torto, secondo lei?
«Perché la dimensione e la direzione dei flussi migratori sono determinate dalla carenza strutturale di lavoro nei Paesi più ricchi ed economicamente avanzati, a fronte di un’offerta di lavoro illimitata nei Paesi più poveri del pianeta. I migranti non sono fuggiaschi, ma persone intelligenti e coraggiose che si muovono verso i paesi che hanno bisogno di loro. Anzi: rappresentano per noi una risorsa indispensabile. Quindi le migrazioni sono un aspetto del mercato planetario del lavoro e la loro gestione rientra nei compiti del ministero del Lavoro, non di quello dell’Interno».
– Lei affronta il fenomeno a partire dalla questione demografica. Perché?
«L’intera umanità è interessata da una vera e propria rivoluzione, determinata dal passaggio da un regime demografico naturale a un regime del controllo: alludo alla capacità di cura e al controllo delle nascite. In questo quadro, tutti i Paesi del mondo presentano il medesimo fenomeno: le tre principali classi d’età – giovani, popolazione in età lavorativa e anziani –, prese in quest’ordine, prima aumentano a tassi crescenti, poi a tassi decrescenti e infine diminuiscono. Si badi, non è un fenomeno sincronico: tutti i Paesi si sono avviati lungo lo stesso percorso, ma in momenti diversi. Noi, i ricchi, abbiamo cominciato prima; i Paesi più poveri hanno da poco tempo iniziato la trasformazione».
– Quali cambiamenti implicherà questo processo?
«La diminuzione dell’offerta di lavoro, nei Paesi sviluppati, sarà così pronunciata da non poter essere colmata dal progresso tecnologico né da politiche attive del lavoro. Di fronte a noi, però, avremo Paesi nei quali la crescita economica non sarà sufficiente a fronteggiare l’aumento dell’offerta di lavoro. Mi spiego: senza migrazioni, per mantenere inalterato l’attuale rapporto tra occupati e popolazione in età lavorativa, nei prossimi 25 anni nei Paesi più poveri della terra serviranno 31 milioni di nuovi posti l’anno, mentre nell’Unione europea se ne dovrebbero distruggere più di 1,5 milioni. È in questa prospettiva che si stanno creando le premesse per flussi migratori di dimensioni senza precedenti: questo sarà il secolo della “terza uscita dall’Africa”. Ecco perché il problema dei migranti, questo è il fulcro del mio ragionamento, va letto dal punto di vista della domanda di lavoro».
– Sembra un processo ineluttabile. Che cosa dovrebbe fare l’Europa?
«Prima di tutto dovremmo seguire il consiglio di Frank Zappa: “La mente è come un aquilone, funziona solo se la tieni aperta”. Significa cambiare gli occhiali con i quali guardiamo il mondo. I numeri forniti da Undesa (United Nations – Department of Economic and Social Affairs, ndr) sono chiarissimi: nella Unione europea “a 27”, tra il 2020 e il 2050 usciranno dal mercato del lavoro quasi 65 milioni di persone. Nello stesso arco temporale, in Africa, la popolazione in età lavorativa aumenterà di 800 milioni di unità. Sono persone. E, per noi, sono anche risorse indispensabili. Come tali vanno trattate, non imprigionate».
– Quali misure sarebbero necessarie, in pratica?
«La UE deve stimare, per tutti i Paesi che la compongono, il fabbisogno di lavoro, per livello educativo e per professione. Poi occorre identificare i possibili Paesi di partenza e definire con essi l’attivazione, in loco e a spese nostre, di processi formativi tali da generare flussi coerenti con le esigenze individuate. Sarà opportuna anche una forma di cogestione del trasferimento dei migranti fino al paese di destinazione. Infine l’UE deve sovrintendere all’inserimento dei lavoratori nel mercato del lavoro interno promuovendo, allo stesso tempo, l’integrazione sociale delle loro famiglie. Un obiettivo tanto ambizioso quanto necessario».
– Le analisi politiche, in Europa, sembrano quasi tutte orientate alla chiusura, alla difesa delle frontiere… è una Mission impossible?
«C’è una sola speranza: costruiamo scuole e centri di formazione, non muri».