«Una catastrofe è imminente»
Il dottor Fadi Atrash, amministratore delegato dell’Augusta-Victoria-Hospital a Gerusalemme est, parla dell’impatto della guerra sui pazienti e sul personale ospedaliero
Crescono le preoccupazioni per la sorte dei civili coinvolti in questi giorni nella guerra in Israele-Palestina. Diverse migliaia di persone sono state uccise e ferite e centinaia di migliaia sono sfollate a Gaza. La guerra colpisce anche i pazienti e il personale dell’ospedale Augusta Victoria (AVH), una delle sei istituzioni della rete ospedaliera di Gerusalemme Est. L’Ospedale – che è di proprietà e gestito dal 1950 dalla Federazione luterana mondiale (Flm) – in particolare fornisce assistenza specializzata ai malati di cancro e a coloro che necessitano di emodialisi.
Riportiamo di seguito l’intervista al dottor Fadi Atrash, amministratore delegato dell’Augusta-Victoria-Hospital,pubblicata sul sito della Flm, nella quale parla della situazione umanitaria a Gaza e dell’impatto della guerra sui pazienti e sul personale.
Dottor Fadi, può darci un aggiornamento sulla situazione in ospedale?
«Siamo in emergenza e non sappiamo come si svilupperanno le cose. Ho creato una squadra di emergenza in ospedale per coordinare il nostro lavoro. Abbiamo personale sufficiente 24 ore su 24, per garantire il funzionamento dell’ospedale e ridurre la necessità di spostamenti del personale tra l’ospedale e i villaggi della Cisgiordania in cui vivono. Viaggiare tra casa e ospedale sta diventando sempre più rischioso in questi giorni a causa della crescente violenza dei coloni in Cisgiordania. La nostra missione è umanitaria, siamo dalla parte dei nostri pazienti e di coloro che sono colpiti da guerre e conflitti».
La maggior parte dei malati di cancro curati all’AVH provengono dalla Cisgiordania e da Gaza. In che modo la situazione sta avendo effetti su di loro?
«Il 40% dei nostri malati di cancro provengono da Gaza. Dall’inizio della guerra, sabato scorso (7 ottobre, ndr.), 44 pazienti provenienti da Gaza dovevano sottoporsi a chemioterapia e 28 a radioterapia. Nessuno di loro è uscito dalla Striscia. Ne abbiamo altri 60 programmati per la chemioterapia e 20 per le radioterapie questa settimana, ma non arriveranno.
Abbiamo 71 persone provenienti da Gaza in ospedale in questo momento, pazienti e i loro accompagnatori, che non possono tornare a casa. Li abbiamo ospitati in un albergo vicino o in ospedale.
Anche i pazienti della Cisgiordania hanno grandi difficoltà a raggiungere l’ospedale, a causa della chiusura dei collegamenti tra le città e i villaggi della Cisgiordania e delle notizie di violenti scontri tra i coloni e la popolazione locale. Le persone che si spostano tra gli insediamenti rischiano di essere colpite da colpi di arma da fuoco. Giovedì avevamo programmato sessioni di radioterapia per 140 pazienti provenienti dalla Cisgiordania, ma solo 40 di loro sono riusciti a raggiungere l’ospedale. Se il trattamento del cancro viene interrotto, ciò influirà ovviamente negativamente sulla prognosi».
Quali azioni sta svolgendo l’AVH?
«Offriamo alloggio per i pazienti che ne hanno bisogno. Teniamo i pazienti per l’emodialisi in ospedale, perché hanno bisogno di una seduta a giorni alterni e, se la perdono, moriranno. È un trattamento salvavita. Inoltre, tratteniamo quasi tutti i bambini della Cisgiordania che ricevono emodialisi in ospedale, per garantire la continuità delle loro cure e la sicurezza loro e delle loro famiglie. Oltre a queste misure speciali, continuiamo a operare come al solito, curando pazienti affetti da cancro e malattie renali».
Come reagiscono i pazienti di Gaza alle notizie che ricevono?
«È molto, molto triste e molto difficile per loro. Oltre al loro doloroso viaggio verso la cura del cancro, stanno perdendo familiari e le loro case. Guardano le notizie tutto il giorno, cercando di entrare in contatto con le loro famiglie. Vedono tutta quella distruzione e sono lontani dai loro cari. Stanno soffrendo. I nostri infermieri e i nostri team psicosociali cercano di stare sempre con loro, ma non è facile sostenerli in questa situazione».
Negli anni precedenti, l’AVH ha inviato squadre mediche a Gaza per curare i feriti dopo gli attacchi aerei. È possibile ancora?
«No, non è possibile. Questa volta è diverso. Ieri mattina ho chiamato un amico che lavora per l’UNOCHA [Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari]. Ora si trova in un rifugio delle Nazioni Unite a Gaza e mi ha detto: “Non c’è elettricità, né acqua, né accesso umanitario, nemmeno per le trasfusioni di sangue. Gli ospedali sono sopraffatti dai feriti e dalle vittime. Le persone leggermente ferite muoiono perché non ci sono medicine, non ci sono campioni di sangue o non riescono ad arrivare in ospedale in tempo”.
Noi dell’Augusta Victoria Hospital insieme all’East Jerusalem Hospital Network abbiamo lanciato un appello alla comunità internazionale un paio di giorni fa, avvertendo che la situazione è schiacciante per gli ospedali di Gaza e che una catastrofe è imminente. La gente a Gaza ha molta paura, le loro voci non vengono ascoltate, sono preoccupate per il domani e per quello che accadrà loro».
Che impatto ha la situazione sul personale dell’AVH?
«Tre dei nostri dipendenti qui a Gerusalemme vengono da Gaza, non possono tornare a casa. Uno di loro ha perso due cugini dopo la distruzione del loro appartamento. Si trovano in una situazione molto difficile, vogliono tornare dalle loro famiglie ma sappiamo che nessuno può spostarsi. Li colpisce profondamente vedere i loro parenti, i loro compagni palestinesi uccisi a Gaza, e sapere che sono impotenti. Non possiamo inviare nulla a Gaza. Quello che stiamo cercando di fare è aumentare la comunicazione quotidiana con il nostro staff, cercando di metterli insieme in modo che possano parlare e sostenersi a vicenda. Abbiamo anche 7 dipendenti a Gaza».
Qual messaggio vuole lanciare?
«La cosa più importante ora è il cessate il fuoco e l’apertura di un corridoio umanitario per la cura dei feriti e dei malati e per l’ingresso di rifornimenti, carburante, acqua e cibo. Tutti qui sono contrari all’uccisione di civili. Non ci sono dubbi su questo, qualunque sia la tua origine, la tua razza, la tua religione, come essere umano. La risposta umana dovrebbe essere equa da entrambe le parti: garantire la sicurezza dei bambini, delle donne e delle persone innocenti, in Israele e in Palestina, e consentire che gli aiuti umanitari e medici raggiungano coloro che ne hanno bisogno».
Foto: sullo sfondo l’Augusta Victoria Hospital