Inaugurato l’anno accademico della Facoltà valdese di Teologia

La prolusione affidata al presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, il pastore Daniele Garrone

Che cosa hanno detto degli ebrei i protestanti italiani? Quale visione teologica di Israele hanno espresso? Sono queste le domande da cui ha preso avvio la prolusione – Protestanti ed ebrei in Italia, dalle Regie Patenti (1848) alle Intese (1984/1987) – che inaugurava, sabato 7 ottobre, il 169° anno della Facoltà valdese di Teologia. Il professor Daniele Garrone è entrato in medias res nel tema: «Il IV Concilio Laterano (1215), è quello della definitiva condanna dei valdesi come eretici e dell’imposizione di un segno distintivo agli ebrei. Successivamente, gli ebrei come i valdesi, sono esposti alla predicazione degli ordini mendicanti e ne devono patire le conseguenze. Pur nella diversa configurazione giuridica, entrambi i gruppi hanno vissuto, fino all’emancipazione, la realtà del ghetto. Hanno subito le misure controriformistiche, le conversioni forzate: l’ospizio dei catecumeni attendeva ugualmente i loro figli e le loro figlie». I “destini paralleli” delle due storiche minoranze religiose d’Italia viaggiano sui binari “delle clausure e delle restrizioni” – come ebbe già a dire Bruno Di Porto, recentemente scomparso.

Sino alle Regie Patenti, i rapporti tra protestanti ed ebrei italiani non hanno lasciato attestazioni significative. Teologicamente, non si riferisce mai al popolo dell’antico patto alcuna accusa di deicidio ma piuttosto il mancato riconoscimento del Messia promesso da Dio. Evangelici ed ebrei italiani si diedero a cooperare su molteplici fronti a partire dalla comune emancipazione e – conseguentemente – nel Risorgimento. Parteciparono con fervore alle Guerre di Indipendenza, diedero vita a iniziative editoriali e culturali pluraliste – vedi La Riforma Laica – e con sfumature intenzionali diverse aderirono alle guerre etiopiche di inizio Novecento. Nelle valli valdesi come nei ghetti, le Regie Patenti ebbero presto l’effetto di una forza centrifuga. L’eco dell’acquisita libertà – pur ancora parziale – esortava le due minoranze a un coinvolgimento appassionato nel tessuto socio-politico di riferimento, ciascuna secondo le proprie aspirazioni collettive, declinando ulteriormente al plurale l’opinione pubblica italiana.

I valdesi scelsero di dedicarsi primariamente all’evangelizzazione, intesa anch’essa come contributo all’emancipazione nazionale dal “papismo”. Diversamente gli ebrei, nel disinteresse di qualunque forma di proselitismo, preferirono addentrarsi tra le svariate occupazioni del secolo, relegando la pratica religiosa quasi esclusivamente alla già strutturata vita comunitaria. Il XIX secolo ha visto anche proliferare un’ampia letteratura protestante, non solo italiana – non sempre di spessore-. Tuttavia, si tratta di testimonianze di rilievo certamente non storico ma culturale. Demarcano un certo interesse fra protestanti ed ebrei occidentali e una dialettica vivace fra le rispettive posizioni teologiche e culturali. L’impegno tensivo che coinvolse protestanti ed ebrei italiani ebbe a cozzare senza soluzione di continuità con precomprensioni e improvvise battute di arresto che raggiunsero un nuovo culmine durante il periodo fascista. Solo l’era repubblicana – inaugurata nella prassi ordinaria dall’entrata in vigore della Costituzione italiana – consentì la definizione di un perimetro sociale laico in cui protestanti ed ebrei italiani avrebbero avuto occasione di esprimersi al meglio, come giuridicamente stabilito dalle più recenti Intese del 1984 e del 1987. Queste due lunghe e travagliate storie potrebbero agilmente derubricarsi a una serie parallela di fenomeni quasi stereotipati di intolleranza religiosa e/o culturale, tòpoi antropologici. C’è da domandarsi tuttavia se questa narrazione dei fatti – così apparentemente semplice – interpreti davvero la dinamica degli stessi.

Una ispirazione ermeneutica può forse giungere da Genesi 11, 1-9. Su questo passo biblico ha predicato l’indomani il pastore Simone Caccamo nel corso del culto di apertura alla chiesa battista di via del Teatro Valle. Da una parte gli essere umani e il loro “noi” integralista che si nutre di un’unica lingua per comunicare, di un’unica torre di Babele per governare, lavorare e vivere, dove il “medesimo” vuole soppiantare il “ciascuno”. Dall’altra parte il Signore della molteplicità e il suo “noi” pluralista, capace non di fissare, Lui che è Uno, ma di creare alterità. L’umana ambizione alla verticalità dell’integro si schianta rovinosamente nel sogno divino dell’altro, un incontro di unicità, uno scontro di differenze. Due “noi” appartenenti a grammatiche davvero opposte. Forse è questa la naturale verità di ogni sistema ambiziosamente totalitario: quanto più raggiunge la vetta dell’omologazione maggioritaria tanto più prepara il suo collasso. E così mostra quanto sia contraddittoria la necessità di annichilire le alternative per far sopravvivere un integro turrito così fragile da temere di essere assediato e vinto da esse. Una torre d’altronde non è altro che una serie di blocchi di mattoni sovrapposti o a incastro: ma con il giusto baricentro.