Lo sport anticipa la realtà

Il voto unanime del 20 settembre alla Camera ha inserito nella Costituzione i molti valori dell’attività sportiva: una pratica che concorre alla crescita sociale della popolazione

Un’idea folle, quasi un’utopia, nata nella primavera del 2020, quando tutti noi, sportivi compresi, eravamo costretti ad assistere a un agghiacciante avvenimento della storia che stava stravolgendo le nostre vite. Fu in quel momento che emerse con evidenza e forza che diventasse necessario tentare di far sì che l’attività sportiva e i suoi valori fossero riconosciuti nella nostra Carta costituzionale. A differenze di tante altre nazioni europee (Spagna, Portogallo, Grecia, Svizzera, Romania, Polonia, Bulgaria, Ungheria, Croazia, Lituania) in Italia quel riconoscimento non c’era, perché quando nell’aula di Montecitorio, il 22 dicembre 1947, l’Assemblea costituente approvò la nostra Costituzione occorreva creare discontinuità con un’interpretazione distorta di sport che, nel ventennio precedente, era stato strumento di propaganda, di controllo e di divisione fra i popoli.

Quello che è successo lo scorso 20 settembre, in quella stessa Aula, non è stato una “correzione” (la nostra Costituzione non ha certo bisogno di essere corretta), ma un’attualizzazione della forza della Carta stessa, proprio perché in questi decenni lo sport ha dimostrato di essere un linguaggio universale, un veicolo di comunità, pace, felicità. Con uno straordinario voto unanime, al termine dell’articolo 33 è stato dunque aggiunto il comma: «La Repubblica riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme».

Sono i valori che si possono incontrare in qualsiasi luogo dello sport, strumento di inclusione per eccellenza. Basta aprire la porta di una palestra, andare in campo sportivo, su una pista di atletica, in una piscina per vedere un modello di società fatto di ragazzi il cui colore della pelle è diverso, il credo religioso è diverso, lo status sociale è diverso, il conto in banca dei genitori è diverso. Eppure, a loro, tutte quelle differenze non interessano. Indossano la stessa maglia, vogliono passarsi la palla nel modo migliore per fare un goal, una schiacciata, un canestro, una meta. Questo modello di società esiste, funziona, e lo si trova lì, sul campo, dove lo sport insegna la convivenza e la soluzione dei conflitti. Soprattutto insegna che le differenze sono una ricchezza. 

Come potrà ora la Repubblica negare che sia lo sport il più efficace strumento di inclusione per i ragazzi con background migratorio? Quasi un milione di loro ha meno di 18 anni, tre su quattro sono nati in Italia, abitano e vanno a scuola nel nostro Paese senza averne la cittadinanza, hanno difficoltà enormi nell’accedere allo sport e non possono, indipendentemente dal loro talento, sognare di vestire la maglia azzurra. Lo sport è capace di anticipare la realtà. E poi lo sport è “cultura del movimento”, fatto che prescinde da età, genere, talento, abilità o disabilità ed è un vero investimento, perché il grande tema del futuro non sarà quello di aumentare la nostra aspettativa di vita, ma di migliorarne la qualità, specie nella sua parte finale, contribuendo a generare risparmio al Servizio Sanitario Nazionale. Insomma, la “cultura del movimento” come un vero sistema di welfare.

Ho dedicato tutta la mia vita allo sport, prima sul campo, oggi alla Camera dei deputati, occupandomi di rappresentare al meglio un tema, lo sport, e un meraviglioso territorio all’interno del quale ci sono anche le valli valdesi. In questo epocale risultato, che è di tutto il Parlamento insieme, ci sono i due insegnamenti fondamentali che ho imparato dallo sport: la bellezza della fatica e la necessità della sconfitta. Chi vince sa che in qualsiasi momento potrà perdere, chi perde sa che, faticando e migliorando, potrà vincere. Penso all’insegnamento di Alfonsina Strada, una donna che nel 1924 si iscrisse al Giro d’Italia dicendo: «Vi farò vedere io se le donne non sanno stare in bicicletta come gli uomini» e a un ragazzo del Sud, profeta della fatica, che si allenava quattro volte più degli altri, ottenne quattro lauree, visse quattro vite: atleta, avvocato, esperto di diritto dello sport, europarlamentare. Si chiamava Pietro Mennea e sono certo che in qualche modo sia felice. Come sono certo siano felici milioni di uomini e donne che non hanno vinto medaglie, ma che con fatica e volontà hanno tenuto in piedi lo sport di questo Paese: una specie di gigantesco “Quarto Stato” fatto di volontari, genitori, dirigenti, allenatori, mecenati, atleti, amatori. È soprattutto per loro che, nel nostro Paese, è nato il diritto allo sport. 

Mauro Berruto è parlamentare, primo firmatario della proposta di legge per la tutela dello sport in Costituzione; commissario tecnico della Nazionale di pallavolo (2010-2015), medaglia di bronzo Olimpiadi 2012