Visita di Mattarella, tutti i discorsi della giornata
A disposizione i testi degli interventi del Presidente della Repubblica, della moderatora della Tavola valdese Alessandra Trotta, del sindaco di Torre Pellice Marco Cogno e di Valdo Spini
Pubblichiamo di seguito i testi dei vari interventi che hanno caratterizzato la giornata di ieri 31 agosto, in occasione della visita a Torre Pellice (To) del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella..
Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione del Convegno dal titolo “Il sogno europeista è nato qua. Una sfida da completare”:
«Desidero innanzitutto ringraziare il Sindaco per avere esortato tutti noi presenti a un minuto di raccoglimento per il dolore per la morte di questi cinque lavoratori di questa notte. Tutti quanti – come il Presidente della Regione, il Sindaco di Torino che si sono recati questa mattina sul luogo, come tutti i Sindaci presenti, tutti i presenti – abbiamo pensato come morire sul lavoro sia un oltraggio ai valori della convivenza.
Grazie Sindaco per questa iniziativa, che richiama quanto sia importante la tutela del lavoro e della sua sicurezza.
Rivolgo un saluto molto cordiale a tutti i presenti.
E vorrei sottolineare quanto sia lieto, questa mattina, di rendere omaggio a una delle piccole Patrie che arricchiscono l’identità del nostro Paese e alle comunità che le abitano. Ciascuna di esse è essenziale per definirne i caratteri.
Lo ha ricordato poc’anzi il Sindaco Cogno, citando la targa appena scoperta, con una scritta particolarmente felice: “Passa dai piccoli luoghi la grande storia e la speranza di pace che nutre l’Unione europea”.
Torre Pellice non è, certamente, un luogo remoto della Repubblica e non soltanto per il contributo fornito alla causa della libertà e a quella dell’Europa.
Tra i tanti aspetti, assume significato che da qui provengono le origini dello stemma della Repubblica Italiana, disegnato da Paolo Paschetto, nato a Torre Pellice, e qui morto sessanta anni fa.
Non fu un compito facile quello dell’artista valdese, sino al giorno in cui l’Assemblea Costituente approvò, nella seduta del 31 gennaio 1948, la versione definitiva che unisce la stella, la ruota dentata, i rami di ulivo e di quercia, simboli della volontà di pace della nazione, della forza e dignità del popolo italiano, del valore del lavoro nella vita della nostra democrazia. Mentre la stella rappresenta la continuità con il Risorgimento e, ancora oggi, indica l’appartenenza alle Forze Armate e quindi il loro legame di lealtà alla Repubblica.
La Repubblica volle già essere presente qui, con il Presidente Cossiga e con il Presidente Scalfaro, a testimoniare l’apprezzamento per le virtù civiche espresse in queste contrade sul terreno delle libertà e dei diritti.
Perché fra le contrade in cui si è fatta la storia d’Italia, si inseriscono, a pieno titolo, queste vallate.
Luoghi anche simbolici, in cui è possibile rintracciare i valori che la Repubblica ha saputo fare propri.
Idealmente un filo lega fra posti apparentemente così lontani come l’isola di Ventotene e le Alpi. Lì un carcere dove vennero rinchiusi patrioti e qui gli spazi aperti della libertà. Il filo che li unisce è appunto la libertà.
A ricordarcelo sono due nomi che qui evochiamo con riconoscenza: Mario Alberto Rollier e Altiero Spinelli.
A Spinelli, con il manifesto di Ventotene “Per un’Europa libera e unita”, dobbiamo quello che, severamente, definì non un sogno ma “un invito a operare”.
A Rollier, nella cui casa di Milano prese forma, a fine agosto del 1943, il Movimento Federalista Europeo, dobbiamo la proposta di uno “schema di costituzione dell’Unione Federale europea”. Un contributo ispiratore di riflessioni per la Assemblea Costituente. In Piemonte, un altro ne venne recato da Duccio Galimberti e Antonio Repaci.
Piemonte, una Regione decisiva per la Liberazione dell’Italia e aperta alla causa dell’integrazione europea: e penso anche alle attività promosse dalla Consulta europea voluta dal Consiglio regionale.
Vorrei ricordare, ancora, a questo riguardo, la Carta di Chivasso, del dicembre 1943, Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine, luogo di incontro tra i partigiani di queste vallate e quelli della Val d’Aosta, manifesto dell’autonomia e del pluralismo.
Dopo la liberazione dal carcere di Ventotene e l’incontro di Milano, sulla strada verso la Svizzera, Spinelli è ospite della famiglia Rollier qui a Torre Pellice e pronuncia quello che viene ricordato come il suo primo discorso pubblico, come ha ricordato il Prof. Giordano, definendolo “Seme di una coscienza europea”.
Da quel giorno partirà il percorso che, di lì a poco, porterà queste contrade alla scelta della Resistenza, quella contro l’invasore nazista e contro la reincarnazione del regime fascista che ne era al servizio.
Sono anche i giorni, in quel settembre 1943, della conclusione dei lavori del Sinodo valdese, che coincise con l’annuncio dell’avvenuto armistizio con le potenze Alleate.
Siamo cioè, nel pieno di quella fase di transizione, convulsa e ambigua, che portò tante sciagure alla nostra popolazione.
Fu una rottura nella storia dell’Italia, anche della stessa unità del Paese, con il Regno del Sud, da una parte, e il regime collaborazionista di Salò al Nord.
L’8 settembre 1943 fu, però, anche l’ora del riscatto.
Dei militari italiani che si batterono, a Porta San Paolo, a Roma, così come nelle isole del Mediterraneo, nei Balcani, pagando a caro prezzo la loro fedeltà alla Patria.
Dei cittadini che da tempo avevano abbandonato ogni fiducia nei confronti degli stentorei e vacui proclami della dittatura di Mussolini.
Si fece strada, nel Paese, la coscienza di un nuovo inizio.
La lotta di Liberazione, poi la Repubblica e la Costituzione, corroborano la riconquistata unità nazionale, la libertà e la piena partecipazione democratica, con il voto finalmente riconosciuto alle donne.
Dopo la contraffazione operata dal fascismo, si comprese come il valore della Patria non si esaurisca nella aspirazione a una storia comune ma come rilevi la capacità di costruire il futuro del nostro popolo, di una comunità responsabile, espressione autentica dei valori dei cittadini del nostro Paese.
Da qui, da Torre Pellice, accanto al “Pioniere”, furono stampati periodici come “La baita” e “La forgia” e i nuovi Quaderni di Giustizia e Libertà. E desidero anch’io salutare Giulio Giordano, giovanissimo partigiano di quegli anni e protagonista di quelle imprese.
Il 1944 è anche l’anno della prima edizione di “Stati Uniti d’Europa” di Mario Alberto Rollier.
Alla sua figura ho fatto riferimento a proposito dello “Schema di Costituzione dell’Unione federale europea”, da lui proposta con l’idea di convocare un’apposita Convenzione per dotare l’Europa federale di un proprio Statuto.
Un’iniziativa ripresa, all’inizio di questo millennio, con il tentativo – purtroppo fallito a causa dell’opposizione dei referendum francese e olandese – di dar vita a una vera e propria Costituzione d’Europa.
Quanta lungimiranza in quegli anni della lunga vigilia che doveva portare alla conquista della pace in Europa!
Consideriamo anzitutto il preambolo che, secondo Rollier, avrebbe dovuto caratterizzarla.
Leggiamo: “Garantire a ogni uomo e donna i benefici di un’uguale libertà”; “perpetuare il governo del popolo, per il popolo, attraverso il popolo, nel nome dell’uguale diritto di ogni uomo di contribuire al governo di tutti”…
Ancora, con una acuta sensibilità, interprete anche della storia di queste valli, all’art.1 “la libertà di coscienza e di culto, la libertà di opinione, la libertà di parola e la libertà di stampa sono garantite”.
Con ulteriore visione preveggente e concreta, l’art.11: “Tutti i cittadini nati o naturalizzati negli Stati autogovernantesi dell’Unione sono contemporaneamente cittadini dell’Unione e dello Stato in cui risiedono e possono circolare liberamente in tutto il territorio dell’Unione federale”.
Da cosa nasceva questa spinta?
Ricordiamo – dalla raccolta rieditata dalla citata Consulta europea – la frase posta sotto la testata del primo numero di quella che sarà poi, a lungo, voce del Movimento Federalista Europeo, pubblicato clandestinamente in Piemonte nel maggio del 1943. Ben prima, dunque, del Gran Consiglio che sfiduciò Mussolini e del successivo armistizio.
Quel foglio, “L’Unità europea”, scriveva: “Alla fine di questa guerra l’unificazione d’Europa rappresenterà un compito possibile ed essenziale. La divisione in Stati nazionali dell’Europa è oggi il nemico più grave della impostazione e soluzione umana dei nostri problemi: la minaccia esterna, fantastica o reale, turba tutti i processi e apre la via a tutte le forze reazionarie, all’assurda marcia verso l’assurdo, verso la guerra, degli ultimi settant’anni”.
Una causa promossa con vocazione di ampia trasversalità, come ci conferma la pluralità delle personalità che parteciparono alla fondazione del Movimento Federalista Europeo.
Ebbene, oggi parliamo – vivendole concretamente – di cittadinanza “europea”, di libera circolazione delle persone negli Stati di quella che, nel frattempo, è divenuta “L’Unione”.
Parliamo dei valori di libertà e democrazia che contraddistinguono i suoi membri.
Sembra di rileggere quanto veniva scritto allora.
Un primo segno fu il Trattato di Londra del 1949 che diede vita al Consiglio d’Europa con sede a Strasburgo. Seguirono poi le iniziative dell’accidentato percorso di integrazione europea, evidenziate poc’anzi dall’on. Valdo Spini.
Un cantiere permanente quello che caratterizza il percorso verso una “unione sempre più stretta” tra i popoli europei, come recita il preambolo della Carta dei diritti fondamentale della Unione europea.
Veniamo da una stagione che ha visto l’Unione fortemente sollecitata a saper proporre soluzione politiche a questioni centrali per il futuro.
Guardiamo per un momento alle crisi attraversate o a quelle in corso: la pandemia, la crisi finanziaria, la guerra.
Si ritiene forse possibile affrontarle fuori dall’Unione europea o con una Unione debole?
È noto come nel processo di unificazione europea si sia, a lungo, dibattuto fra due prospettive o meglio, forse, fra due percorsi con la medesima prospettiva: la piena integrazione d’Europa. Quella federalista di Spinelli e quella funzionalista di Jean Monnet, messe in campo dal Ministro degli esteri francese, Robert Schuman.
Certo, si è sovente presentata anche l’interpretazione, riduttiva, di una mera cornice di collaborazione economica, tuttora fatta propria da alcuni Stati membri.
La battaglia di Spinelli si sviluppò poi nel Parlamento europeo, verso una vera e propria Costituzione europea.
La sfida di fronte alla quale ci si è sempre trovati è quella della capacità di passare, coerentemente, dalle politiche adottate in sede comunitaria, alla loro traduzione in istituzioni.
Si colgono qui sia i limiti dell’approccio funzionalista sia i passi concreti che ha permesso di fare.
Nel tempo presente, si pensi al ruolo fondamentale e prezioso espresso dall’Unione su temi come quelli della salute durante il Covid (che pure non appartengono, strettamente, alla competenza comunitaria) e del rilancio delle economie, con i programmi del NGEU e del SURE, che permettono, anche al nostro Paese, di promuovere, fra gli altri, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
Contemporaneamente va osservato che passi avanti sul terreno federalista si riscontrano sin dal sorgere della prima importante tappa che apre al cammino europeo: la Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio, lanciata da Schuman, in cui, con grande significato, si dà vita a un’autorità internazionale “indipendente dai governi”.
Credo che sia evidente a tutti – o quantomeno a molti – come l’espressione di Spinelli “l’Europa sogno o invito a operare” si sia trasformata oggi in un dovere.
Ho ricordato la questione della guerra portata dalla Federazione Russa all’Ucraina come la sfida di fronte alla quale si trovano oggi i popoli europei.
Spesso la drammatica sofferenza delle guerre ha spinto verso nuovi equilibri e ordini internazionali.
Per restare al Novecento, è stato così con il Primo conflitto mondiale e la nascita della Società delle Nazioni.
Così con il Secondo conflitto, con le Nazioni Unite e l’avvio del processo di integrazione europea.
In entrambi i casi, l’aspirazione era porre fine alla guerra come strumento di risoluzione delle controversie, come recita la nostra Costituzione.
E, a lungo, prima sul crinale della “guerra fredda”, poi della caduta della “cortina di ferro”, la stabilità è prevalsa.
La nostra Costituzione, agli art. 10 e, soprattutto, 11, impegna l’Italia a promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare pace e giustizia fra le Nazioni.
La pretesa che siano le guerre a disegnare gli equilibri corrisponde alla logica del prevalere del più forte sul più debole.
La logica che ha condotto alle nefandezze del Novecento.
Per uscire dalle quali sono state necessarie tenacia e risolutezza.
Alcide De Gasperi, ritenuto, a ragione, uno di Padri fondatori oltre che della nostra Repubblica anche del processo di integrazione europea, forte della sua esperienza di uomo di frontiera, osservava che “la principale virtù della democrazia è la pazienza. Bisogna attendere alle cose con tenacia e vigilanza, con la coscienza che le cose debbano sempre maturarsi”.
La pazienza “di fronte alle lentezze dell’uomo”.
L’unità europea è un’impresa in salita, dove alle difficoltà e alle visioni anguste si devono contrapporre fattori ideali e politici.
L’unità europea è l’ambizione di completare uno storico percorso di innegabile successo.
Sprovvista delle sue autentiche ambizioni, l’Europa non avrebbe ragione di esistere. Non potrebbe esistere.
L’ambizione, in tempi di guerra, di conseguire presto la pace per un ordine internazionale rispettoso delle persone e dei popoli.
L’ambizione, in tempi di pace, di preparare la pace del futuro, il suo consolidamento per la giustizia tra le nazioni e fra i popoli.
È questa la permanente attualità dell’invito a operare di Spinelli.
Da raccogliere; in ogni stagione».
Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dell’incontro con la Comunità Valdese
«Sono particolarmente lieto di questa opportunità di incontro in occasione dell’80° anniversario di un Sinodo che rappresentò una riflessione alta nel modo di porsi della vostra Chiesa e delle religioni nei confronti dello Stato.
Erano i giorni dell’incertezza che faceva seguito alla caduta del fascismo e, in contemporanea, dell’armistizio fra potenze alleate. Il vostro dibattito si svolse esattamente in quei giorni e si trovò a confronto con alternative difficili.
Molti fra i presenti scelsero la strada della lotta per la libertà, unendosi alla Resistenza.
Da quel Sinodo emerse la orgogliosa affermazione per cui la Chiesa valdese “fondata sui principi dell’Evangelo, si regge da sé in modo indipendente, nell’osservanza della sua confessione di fede e del suo ordinamento senza pretendere alcuna condizione di privilegio nell’ordine temporale, né consentire nel proprio ordine ad ingerenze o restrizioni da parte della società civile”.
Troviamo traccia di questa posizione nelle previsioni della nostra Costituzione che superò la normativa fascista sui “culti ammessi” e le limitazioni derivanti dal regio decreto febbraio 1930 sull’apertura di templi non cattolici.
Ringrazio quindi per l’invito, e per le sue parole, la Moderatora, Alessandra Trotta, e saluto tutti i presenti, i rappresentanti delle istituzioni e degli organismi che animano l’attività delle vostre Chiese e i giovani presenti.
La vostra esperienza è legata, per molti aspetti, alla causa della libertà. Naturalmente, in particolare a quella della libertà di culto.
Il diritto alla espressione delle proprie convinzioni è stato accompagnato, nel vostro caso, da vicissitudini che, nella storia, talvolta tendono a riproporsi.
La vostra comunità, infatti, ha acquisito a caro prezzo diretta cognizione di cosa significhino parole come “esiliati”, “rifugiati”, “accolti”, “ritornati”. Di cosa significhino “esilio” e “ritorno”.
Recate le stigmate di chi aspira a vivere orgogliosamente nella propria Patria anche quando questa respinge.
Di cosa significhi trovare solidarietà – al di là delle Alpi in questo caso – in quelle montagne che Braudel ha definito il “rifugio – nel Mediterraneo – delle minoranze eretiche”.
Di chi, con sofferenza, ha ottenuto riconoscimento delle proprie ragioni.
Oggi, nella Repubblica, le montagne non sono più un rifugio per perseguitati e, soprattutto, non esiste più la categoria abusiva degli “eretici”.
Al contrario, la nostra Costituzione riconosce e valorizza le peculiarità di persone e comunità, quelle che- come ricordava l’insigne teologo valdese Giovanni Miegge – il “fascismo combatteva sistematicamente”. Fossero “originalità regionali di lingua o tradizione”.
Si tratta dell’applicazione di quel principio fondamentale per il quale insidiare la libertà di uno dei componenti della società equivale a porre in discussione la libertà di tutti.
Del resto, è noto come non vi possa essere piena libertà civile e politica senza libertà religiosa.
Lo attesta la stessa vicenda delle patenti della cosiddetta “emancipazione” della comunità valdese firmate da Carlo Alberto nel 1848, significativamente a pochi giorni dalla promulgazione dello Statuto che introdusse le libertà costituzionali nel regno di Sardegna.
Nel famoso discorso detto delle Quattro libertà, il presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, ebbe a collocare la libertà di culto appena dopo quella di parola e di espressione. Perché è “essenziale” – disse – che “ogni persona (possa) rivolgersi a Dio a suo modo – ovunque nel mondo”.
Un sacerdote cattolico, don Primo Mazzolari – antesignano delle tesi che saranno fatte proprie dal Concilio Vaticano II della Chiesa cattolica – amava ricordare che “la libertà è l’aria della religione”.
Fedi che non respirassero l’aria della libertà sarebbero prigioniere di un’angusta interpretazione di sé stesse; frenate, imprigionate, subordinate, inoltre, a interessi temporali, limitate nella capacità di rendere quella testimonianza nello spazio pubblico che, per definizione, è uno spazio plurale.
“Luogo di incontro e dialogo” lo ha opportunamente definito la Moderatora Trotta.
Alla Costituente il dibattito su questi temi fu intenso e appassionato.
Venne affermato il principio di uno Stato non confessionale, venne resa esplicita la consapevolezza che libertà di culto e libertà di coscienza rappresentano due facce della stessa medaglia.
Ne troviamo puntuale conferma all’art.8 che stabilisce l’eguaglianza di “tutte le confessioni religiose” davanti alla legge e, all’art.19 ove si afferma che “tutti hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata”.
Quando i Costituenti approvarono l’art.19, Meuccio Ruini, Presidente della Commissione dei 75, ebbe a definire quel testo “un’affermazione rigorosa della libertà di coscienza e di fede”.
Il Presidente Cossiga volle intervenire qui a Torre Pellice, in occasione del bicentenario del “glorioso rimpatrio”.
Il Presidente Scalfaro fu qui nel 150° anniversario della “emancipazione”.
Oggi, possiamo constatare che i due temi della libertà di culto e del rapporto con la Repubblica delle confessioni organizzate hanno trovato una felice composizione che valorizza, anzi, l’apporto di queste ultime alla vita della nostra società.
Libertà e pluralismo sono l’ambiente nel quale le religioni si muovono e partecipano alla edificazione di una società più giusta, progredita, rispettosa dei diritti.
L’odissea dei Valdesi, il loro contributo – da credenti – al bene comune della Repubblica, testimonia il valore della presenza che assicurano alla storia d’Italia.
Ed è paradigmatica della libertà, fondamento della nostra Costituzione.
Grazie di questa accoglienza».
Discorso della moderatora della Tavola valdese Alessandra Trotta in occasione della visita in Casa valdese del Presidente Mattarella:
«Egregio presidente,
è un onore accoglierla (con l’intera Tavola valdese ed una rappresentanza dei principali organismi ecclesiastici, delle chiese di queste Valli e di istituzioni formative e culturali) in questo spazio così significativo per la storia e la vita della nostra Chiesa.
Questo luogo venne realizzato nel 1889, in occasione del bicentenario del cosiddetto Glorioso Rimpatrio, evento storico che vide i valdesi, dopo tre anni di esilio in Svizzera, ritornare nelle terre dalle quali, con la violenza, erano stati cacciati, in un tempo in cui la diversità di fede era soffocata con la persecuzione. Qui, da allora, la nostra Chiesa ha tenuto ogni anno le proprie assemblee sinodali, luogo di discussione e decisione e massima espressione di unità di tutte le chiese locali, che rinunciano a porzioni della loro autonomia per una condivisione di risorse che guarda al camminare insieme, allo sviluppo comune, al soccorso del bisogno maggiore come al modo per fare il bene di tutti, secondo l’insegnamento che ricaviamo dalle parole e dalla prassi di Gesù.
L’affresco che occupa l’abside e che rappresenta, con una quercia che affonda le proprie radici sulla roccia, la vicenda valdese nel suo percorso di resistenza nei secoli all’oppressione subita, ci collega, mediante il suo autore, alla storia dell’Italia repubblicana: il suo autore è infatti quello stesso Paolo Paschetto, valdese, che realizzò lo stemma della Repubblica Italiana. La roccia nella quale affondano le radici non è l’umano convincimento che alimenta la resistenza in favore di una causa giusta: è, nella prospettiva di fede, la parola che fonda la vita dei credenti, che li chiama a libertà e senza la quale non vi è terreno sul quale poggiare il piede.
E’ tanto più significativo che proprio in questo spazio alcuni dei protagonisti che la sua presenza a Torre Pellice viene oggi ad onorare hanno espresso il loro impegno coniugandolo con la loro fede, in un inestricabile intreccio di pensiero e vita. La generazione che si impegnò nella resistenza al regime nazi-fascista – una resistenza che non vorrei definire “valdese”, ma composta da molti valdesi che ebbero la lucidità per riconoscere le necessarie scelte da compiere (seguendo una coscienza consapevole della tragicità di quelle scelte, dunque senza esaltazioni, senza odio per un nemico) – questa generazione crebbe anche in quest’aula e grazie al modo in cui, in questo spazio, si viveva la riflessione di fede e si assumevano le decisioni relative alla vita della chiesa.
Si trattò in alcuni casi di pastori o di futuri pastori; si trattò anche di molti membri di chiesa non pastori, come, appunto, Mario Alberto Rollier; si trattò di donne e di uomini, originari di queste Valli e di altri luoghi (come Willy Jervis e il metodista Jacopo Lombardini, la cui pietra d’inciampo, Le verrà mostrata nella seconda parte di questa Sua visita); di giovani e di persone più mature. Tutti avevano respirato un senso di libertà che derivava anche da un modo di leggere la Scrittura e di vivere la fede, individualmente e comunitariamente; tutti seppero collegare questa dimensione con gli ideali e le aspirazioni di libertà che il nostro Paese visse nel terribile biennio successivo all’8 settembre.
Proprio l’8 settembre l’annuale Sinodo si incontrava in questa sala: le discussioni non condussero ad un pronunciamento chiaro della Chiesa tutta sulle proprie responsabilità, ma offrirono lo spazio per esprimere il travaglio dinnanzi all’oppressione. La Chiesa, che non poteva riconoscere altri signori se non l’unico Signore del mondo e della storia, pena l’accettazione della barbarie e della dittatura, non compì in quel momento atti di eroismo, tentò semplicemente di discernere, per essere fedele al proprio mandato.
In quello stesso Sinodo si avvertì anche l’urgenza di definire le linee della politica ecclesiastica nei rapporti con lo Stato, già nella prospettiva di un ritorno alla democrazia: indipendenza della Chiesa nello svolgimento della propria missione (senza limitazioni e vincoli) ed insieme riconoscimento della laicità delle istituzioni pubbliche, chiamate non a concedere posizioni di privilegio a qualcuno e neppure a relegare l’espressione religiosa alla dimensione privata, ma a preservare lo spazio pubblico come spazio plurale, luogo di incontro e dialogo. Nello spazio pubblico e nella libera circolazione delle idee si gettano le basi della comune costruzione civile, in un concetto attivo e partecipato di cittadinanza che vorremmo il più possibile esteso, nel senso dei diritti, ma anche dei doveri e delle responsabilità.
E fu sempre in questo tempo tragico che, proprio in queste terre, maturava (già nella prospettiva della ricostruzione dalle macerie materiali, etiche e spirituali della guerra), una testimonianza dell’Evangelo della riconciliazione; che infatti, non lontano da qui, nell’alta Val Germanasca, negli anni dell’immediato dopo-guerra ebbe una sua realizzazione incarnata nella costruzione, pietra dopo pietra, mettendo a lavorare fianco a fianco quei giovani che negli anni precedenti si erano trovati su fronti contrapposti, di un centro ecumenico internazionale che prese il nome di Agape. Ispiratore ne fu, in particolare, il pastore Tullio Vinay, poi senatore della repubblica.
Uno sguardo oltre, una visione allargata che, per questa Chiesa, è sempre stata, naturalmente ed essenzialmente, europea ed ecumenica: piccole valli montane, che però da secoli hanno potuto contare in tutta Europa su una rete di legami e di solidarietà che ci ha protetti nelle persecuzioni, e – anche nel tempo della costrizione in un ghetto – ci ha preservati da chiusure difensive e ristrettezze mentali e culturali.
La nostra storia ci ha resi aperti anche alla sfida trasformativa dell’accoglienza – dentro le nostre comunità come nella società- di nuovi arrivati da faticosi (quando non tragici) percorsi migratori.
Avvertiamo noi per primi la responsabilità di trasmettere, non solo alle nuove generazioni, ma anche a chi viene da un altrove il senso del vivere (anche la propria fede) in un contesto diverso da quello d’origine; di sentirsi parte di una storia, di impegnare i propri talenti per il bene comune, senza retrocedere da quelle conquiste di libertà, democrazia e rispetto dei diritti umani raggiunte in Europa dopo gli orrori di guerre anche di religione fra cristiani, dell’olocausto, di feroci (purtroppo sempre risorgenti) nazionalismi, che strumentalizzano l’appartenenza religiosa come cemento e fonte di legittimazione di una unità non plurale, ma fondata su identità chiuse e respingenti, violente ed oppressive.
Ci sembra, signor Presidente, questo il migliore contributo da dare nel tempo presente – da credenti – per contrastare il rischio di erosione dei diritti e di una marginalizzazione (economica, culturale, politica e spirituale) dell’Europa e – per quello che ci riguarda – dello stesso cristianesimo europeo. Ci si può salvare e riscoprire con gioia il senso di una vocazione specifica, solo rimanendo fedeli a quelle conquiste e valori fondativi per cui intere generazioni hanno speso e talvolta sacrificato la propria vita.
Come la generazione che in questa giornata Lei ha voluto ricordare nelle figure di Altiero Spinelli e di Mario Alberto Rollier – che ha saputo gettare le basi per la storia repubblicana che uscì dalla guerra e seppe scrivere la Carta costituzionale che ancora oggi ci guida, anche noi siamo oggi chiamati ad un impegno creativo e nutrito di utopia: non l’utopia che esprime il sogno irrealizzabile, ma l’utopia che è segno di un ideale da percorrere con scelte coraggiose».
Discorso di Valdo Spini in occasione del Convegno dal titolo “Il sogno europeista è nato qua. Una sfida da completare”:
«Sig. Presidente della Repubblica, Sig. Sindaco, autorità, cittadine e cittadini,
La sede del Parlamento Europeo a Bruxelles è articolata su due edifici collegati da un transetto. Uno di questi è intitolato ad uno statista di quella nazione, Paul Henri Spaak, e l’altro all’italiano Altiero Spinelli. Che uno dei due edifici sia intitolato ad un’importante personalità belga certo non sorprende, ma che sia un italiano a dare il suo nome all’altro, è qualcosa che non può non inorgoglirci.
È il simbolo dell’importanza assunta, a livello europeo e non solo italiano, dalla battaglia europeista di Altiero Spinelli.
Oggi, a ottant’anni di distanza, vogliamo ricordare una tappa significativa di questa battaglia: la sua prima conferenza pubblica dopo la liberazione dal Confino di Ventotene, subito dopo il congresso costitutivo del Movimento Federalista Europeo svoltosi a Milano in casa di Mario Alberto Rollier, cui si dovette l’organizzazione anche di questa conferenza.
Mario Alberto Rollier era valdese; professore universitario di chimica, insegnava a Milano, ma aveva la sua casa di famiglia a Torre Pellice, la piccola “capitale” delle Valli Valdesi. Aveva aderito al Partito d’Azione e in seguito diventerà un esponente del Partito Socialista Democratico Italiano.
Nella seconda edizione delle sue memorie, pubblicate col titolo “Come ho imparato a diventare saggio”, Spinelli scrive: “Tenni la mia prima conferenza federalista sotto lo sguardo protettore di un grande ritratto di Cromwell, che era ancora ricordato in quelle valli per avere indotto con le sue navi minacciose il re sabaudo a rinunziare alle angherie che infliggeva ai suoi sudditi calvinisti. La sua immagine sembrava ora assicurarci che ancora una volta i discendenti del suo popolo erano vicini alle coste per aiutarci.” Una considerazione – aggiungiamo noi- – che rende ancora più amara la Brexit britannica.
La sala in cui si svolse la conferenza è stata individuata nel retrobottega della “Farmacia Antica Muston” di Torre Pellice edificio in cui si inaugura oggi la lapide celebrativa dell’avvenimento. Da ricerche ulteriori di cui ringrazio l’archivista della Tavola valdese Gabriella Ballesio, è stato possibile stabilire che in realtà gli incontri furono due. A quello della Farmacia Muston ne seguì domenica 5 settembre 1943, alle 21 un secondo, verbalizzato, presso la Società di Studi Valdesi, ed è presumibile che, quando Spinelli parla del ritratto di Cromwell si riferisca a questo. Tra i partecipanti all’incontro presso la Società di Studi Valdese, non posso non ricordare mio padre, Giorgio Spini, allora ventisettenne.
In Val Pellice, e nelle Valli Valdesi in genere, era molto forte il Partito d’Azione che avrebbe dato vita ad una divisione partigiana “Giustizia e Libertà” destinata a scrivere una pagina importante e gloriosa nella Resistenza piemontese e italiana.
Non solo, ma le tradizioni di difesa della libertà religiosa e di autonomia della popolazione di queste valli, e la proiezione europea della Chiesa Evangelica Valdese verso le Chiese Riformate e protestanti, rendevano Torre Pellice un terreno fertile per un’iniziativa federalista europea. Era pertanto un luogo del tutto adatto per questa prima, importante, uscita pubblica.
Quindi, ottant’anni dopo, un luogo particolarmente significativo per la sua visita, Sig. Presidente, che può assumere così un duplice aspetto. Da un lato di affermazione di continuità con l’azione europeista di Altiero Spinelli e dall’altro di incontro con la Chiesa Evangelica Valdese e Metodista che ha aperto la strada all’attuazione dell’art.8 della nostra Costituzione sulle Intese, una realizzazione di libertà e di pluralismo in campo religioso.
Come era arrivato Altiero Spinelli al pensiero federalista europeo.
Altiero Spinelli era stato arrestato e condannato dal tribunale speciale come militante comunista nel 1927, ma aveva maturato in carcere il suo dissenso verso il comunismo e lo stalinismo, ed era stato quindi espulso dal Pci nel 1937, con tutte le conseguenze di isolamento che questo comportava. Si trovava allora al confino nell’isola di Ponza e nelle sue memorie ricorda come fossero stati il socialista Sandro Pertini, futuro presidente della repubblica, e il giellista Francesco Fancello ad essergli amichevolmente vicini in quei difficili momenti.
Dopo il periodo trascorso a Ponza era avvenuto il trasferimento a Ventotene, dove aveva trovato, come abbiamo detto, Ernesto Rossi, l’antico compagno dei Rosselli nel “Non Mollare”, esponente di Giustizia e Libertà, ed Eugenio Colorni socialista, studioso di filosofia.
Con loro Spinelli, rimasto libero da vincoli politici, e in fase di riflessione sugli indirizzi da prendere, (si sarebbe successivamente iscritto al Partito d’Azione) discusse ed elaborò quel “Manifesto per un’Europa libera e unita”, la pietra miliare del pensiero federalista. All’inizio di quell’elaborazione si era in un contesto drammatico e tremendo. In quel momento, l’Inghilterra resisteva da sola all’offensiva vittoriosa della Germania di Hitler, cui si era accodata l’Italia fascista di Mussolini, mentre il patto Hitler-Stalin aveva neutralizzato l’Urss e gli Usa, com’è noto, non erano ancora entrati in guerra. Ebbene in quel momento così buio scaturì una riflessione e un’iniziativa nuova, una prospettiva di speranza per l’avvenire. Il testo, nella sua elaborazione, fu terminato nel 1942 dopo l’attacco hitleriano all’Urss. Ursula Hirschmann riuscì a portare clandestinamente il Manifesto a Roma e a Milano e a raccogliere le prime adesioni.
L’idea sottostante al Manifesto Federalista era che il nazionalismo aveva portato alle due guerre mondiali che si erano scatenate in Europa e che solo un assetto federalista delle nazioni e dei popoli del nostro continente poteva scongiurare il pericolo di nuove guerre e portare a una pace duratura. Un’idea che andava dichiaratamente oltre i partiti tradizionali che si stavano ricostituendo nelle loro nuove o antiche forme e che, secondo Spinelli, se avessero ristretto la loro azione nei confini nazionali non avrebbero estirpato la causa delle guerre mondiali. Occorreva invece una rivoluzione politica concettuale per affrontare alla radice le cause che avevano portato al fascismo e al nazismo e costruire una nuova civiltà.
Troviamo in questa vicenda un altro futuro presidente della Repubblica. Nel primo dopoguerra Luigi Einaudi, con lo pseudonimo di Junius, aveva scritto una serie di articoli sul “Corriere della Sera” favorevoli ad una federazione europea e li aveva raccolti e pubblicati in un libro, “Lettere politiche” pubblicato con Laterza nel 1920. Questo libro era conosciuto da Ernesto Rossi, che era un suo discepolo, e che a Ventotene l’aveva fatto a sua volta leggere a Spinelli. Rossi, come professore di economia aveva l’autorizzazione a corrispondere con Einaudi, che gli mandò alcuni libretti della letteratura federalista inglese, fra cui quello di Lionel Robbins, “The economic causes of war”. Da lì scocca in Spinelli la scintilla di quel pensiero, che perseguito con forza e di tenacia di intenti, ha fatto di lui il campione italiano ed europeo del federalismo. Nel dopoguerra, quando nel 1948 si svolge il Congresso del Movimento Federalista Europeo, Luigi Einaudi, che lì a poco sarebbe stato eletto Presidente della Repubblica, vi partecipò. Una bella foto lo ritrae con il suo basco in testa in una pausa al caffè con Spinelli e Rossi.
Eugenio Colorni non poteva figurarvi più: dopo la riunione fondativa del MFE a Milano, era andato a Roma, dove aveva pubblicato clandestinamente il Manifesto e partecipato attivamente alla Resistenza. Capo Redattore dell’Avanti! doveva morire il 30 Maggio 1944 colpito dai militi fascisti della banda Koch.
Un’altra delle radici federaliste era quella rosselliana, cui Ernesto Rossi apparteneva. Carlo Rosselli si era vigorosamente pronunciato per gli Stati Uniti di Europa già nel 1935 con il suo articolo dal titolo eloquente, “Europeismo o fascismo” pubblicato il 15 maggio di quell’anno. sul periodico “Giustizia e Libertà”.
Voglio ricordare che nel suo esilio londinese, già, nel 1929, dal canto suo don Luigi Sturzo parlava di «un concreto e alto ideale, quello degli Stati Uniti di Europa».
Non c’è qui il modo e il tempo per illustrare le tappe della lunga battaglia europeista di Spinelli, se non per sommi capi. La vicenda, del resto, è stata ben descritta da Piero Graglia nel volume Altiero Spinelli e dagli altri autorevoli storici qui presenti a cominciare da Alfonso Giordano. Ci si limiterà, quindi, a riportarne alcuni tratti.
Spinelli collaborò strettamente con Il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, un convinto europeista, nel progetto della Comunità Europea di Difesa (Ced), fallito per la bocciatura subita nel Parlamento francese nel 1954. Successivamente, negli anni Sessanta, fu chiamato Pietro Nenni a collaborare a redigere i programmi di politica europea del Psi e a consigliarlo quando il leader socialista assunse per la seconda volta il ministero degli esteri nel dicembre 1968.
In seguito, Spinelli fu commissario europeo dal 1970 al 1976, nominato dal governo italiano in una terna di esperti di area socialista presentata dal Psi. Nel 1979 fu eletto al Parlamento Europeo, nelle prime elezioni dirette, nelle liste del Pci che, nel frattempo, aveva maturato la sua scelta in senso europeista. Al Parlamento Europeo Spinelli costituì un intergruppo federalista che fu denominato il Club del Coccodrillo dal nome del ristorante in cui si riuniva e si dedicò all’elaborazione di un progetto federalista. 14 febbraio 1984 fu approvato dal Parlamento europeo il suo Progetto di Trattato per l’Unione Europea: era la concretizzazione e la sanzione da parte di questo supremo organo democratico del Manifesto del 1942. Spinelli non era più un profeta disarmato.
Il progetto di un Trattato per l’Unione Europea venne approvato dal Parlamento europeo, ma non dai governi e quindi non entrò in vigore. Costituì peraltro un potente stimolo verso i successivi passi in avanti che furono compiuti sulla strada dell’Unione Europea, a cominciare dall’Atto Unico Europeo del 1986.
I passi avanti compiuti dal 1942 sulla strada dell’unità europea sono stati enormi. Si tratta di una costruzione ancora unica al mondo, anche se il nostro augurio è che si sviluppino in questo senso altri organismi continentali o subcontinentali che si sono nel frattempo costituiti, come per esempio l’Unione Africana.
Ma, non essendo stata compiuta fino in fondo la strada federalista, l’Unione Europea è continuamente di fronte al problema di raggiungere il consenso di tutti i suoi stati membri per compiere gli ulteriori passi in avanti necessari ad affrontare le situazioni di crisi. Non è retta, come dovrebbe, da una vera e propria Costituzione. Personalmente ho avuto l’onore di far parte della Convenzione per l’Avvenire dell’Europa nel 2000-2001, che redasse un Trattato che aveva il carattere di “Costituzionale” che fu poi bocciato da alcuni referendum nazionali, per cui si dovette ripiegare sul meno incisivo e ambizioso Trattato di Lisbona. Ora il Parlamento Europeo si è pronunciato nuovamente sulla necessità di arrivare ad un trattato costituzionale e speriamo che la prossima legislatura, che si avvierà l’anno prossimo 2024, possa rilanciare questo obiettivo, cui l’Italia deve dare il suo contributo.
Il padre dell’Europa Comunitaria, Jean Monnet, aveva scritto nel 1954: “Ho sempre pensato che l’Europa si sarebbe fatta nelle crisi e che sarebbe stata la somma delle soluzioni che si sarebbero trovate per queste crisi”.
È stato profetico: sia la pandemia del Covid 19, con le sue conseguenze economiche e sociali, sia la guerra scatenata dalla Russia con l’invasione dell’Ucraina hanno messo l’Europa di fronte all’alternativa tra reagire unitariamente e quindi compiere decisivi passi in avanti sulla sua costruzione unitaria, oppure di fatto smarrire la sua missione. L’Unione Europea ha saputo tenere di fronte a prove del genere e con il Next Generation Eu, che per l’Italia si traduce nel Pnrr, ha compiuto un ulteriore salto di qualità, con l’emissione di titoli di debito europei per sostenere quell’iniziativa finalizzata alla ripresa economica e sociale dopo le conseguenze negative del Covid 19.
Certamente vi sono aree di importanza determinante, dalle immigrazioni, al fisco alla stessa difesa europea, in cui l’Europa non ha saputo ancora costruire gli strumenti unitari adeguati e che devono essere considerati come nuovi terreni di iniziativa. In questo senso mi sia permesso di ricordare che, come Fondazione Circolo Rosselli, nel 2001 svolgemmo a Firenze un convegno sulla difesa europea cui il ministro di allora, Sergio Mattarella, dette il suo autorevole contributo.
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha riportato la guerra sul continente europeo, proprio quel tipo di evento che il processo di unione europea voleva scongiurare. Questo evento ci ha costretto a fare nuovamente i conti con la politica o, se si vuole, con la geopolitica. La Russia forniva di energia paesi importanti come la Germania e l’Italia, i legami economici e finanziari sembravano procedere tranquillamente ed invece ha messo in causa tutto ciò con una guerra di ingrandimento territoriale che ancor più che novecentesca sembra ottocentesca. Quando si riuscirà a ristabilire la pace si dovrà lavorare politicamente nel profondo per assicurare pace, stabilità e sicurezza in Europa, in tutta l’Europa.
In questo scenario, per molti versi drammatico, l’ambiente, i mutamenti climatici, la transizione ecologica si sono affermati come le grandi sfide di questa prima metà del XXI secolo e l’Europa può e deve avere un ruolo importante nell’affrontarle. Anche sul nostro territorio nazionale portiamo i segni delle cicatrici degli eventi calamitosi conseguenza di questi grandi cambiamenti nel nostro clima.
Sig. Presidente della Repubblica
Se da tre prigionieri politici confinati in una piccola isola, come Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, Ernesto Rossi, poté scaturire l’intuizione di un processo politico così vasto e così determinante come quello dell’unità europea non ci dobbiamo scoraggiare per le difficoltà che oggi possiamo incontrare, anzi dobbiamo rinnovare e irrobustire il nostro impegno.
L’essenziale è non smarrire la bussola del nostro agire.
L’Unione Europea se vorrà essere veramente tale non potrà mai essere mera sommatoria di singoli interessi o, peggio, egoismi nazionali. La sua costruzione deve essere sostenuta dal fondamento dei valori e degli ideali della democrazia e della libertà, di affermazione dei diritti politici, dei diritti civili e di quelli sociali, autorevolmente presenti nella nostra costituzione. e deve sapersi collocare su un orizzonte ambizioso e rinnovatore, di unità e di coesione. In un mondo in cui si muovono stati continentali con più di un miliardo di abitanti (India, Cina) o di dimensione continentale come gli Usa, non ha senso pensare che piccole nazioni possano avere da sole una reale influenza. Dobbiamo quindi andare avanti, ma senza una visione ambiziosa sull’unità europea com’era quella di Spinelli, Colorni e Rossi non si faranno neppure i passi graduali e parziali cui il realismo politico può costringerci.
Ricordo che un altro dei suoi predecessori, Carlo Azeglio Ciampi amava dire: non è importante tanto governare una moneta nazionale quando questa è di fatto soggetta agli effetti delle decisioni e dei comportamenti altrui, bensì è preferibile mettersi nelle condizioni di compartecipare e influire sulle scelte che effettivamente contano come quelle che possono derivare da una moneta unica europea.
Più volte, anche recentemente, Lei, Presidente Mattarella ha riaffermato con chiarezza la necessità di una decisa politica europeista dell’Italia: venendo qui a Torre Pellice per onorare con la sua presenza questo anniversario, Lei conferma il suo impegno e dà un autorevole e significativo segnale in questa direzione.
Oggi qui a Torre Pellice, ricordando la storica conferenza pubblica di Altiero Spinelli, vogliamo sottolineare il valore e l’importanza che ha assunto nel federalismo europeo il contributo italiano. Possiamo rivendicarlo con orgoglio – lo dico senza mezzi termini – nazionale. Il ruolo della nostra patria, il ruolo dell’Italia si è dimostrato importante non nel rivaleggiare con le altre nazioni europee ma nel saper dare il suo contributo- fondamentale e propulsivo- al progetto europeista.
È questa la lezione che ci ha lasciato Altiero Spinelli, ed è a questa lezione che oggi qui a Torre Pellice, Sig. Sindaco, in un comune non grande nelle sue dimensioni ma significativo per la sua storia e per il messaggio ideale e di libertà che rappresenta, ci vogliamo tutti insieme richiamare».
Discorso del sindaco di Torre Pellice Marco Cogno in occasione del Convegno dal titolo “Il sogno europeista è nato qua. Una sfida da completare”:
«Signor Presidente, da parte mia, dell’Amministrazione comunale di Torre Pellice, di tu i Sindaci del Pinerolese e Amministratori locali qui presen, ed in rappresentanza di tu i nostri ciadini e ciadine di Torre Pellice, un emozionato e commosso benvenuto.
Un riguardoso benvenuto a tue le autorità civili, militari, religiose, e un sincero saluto a tu i rappresentan dell’impresa, ai giornalis e alle associazioni in questo giorno di festa per le nostre Comunità delle Valli. Grazie per aver acceato il nostro invito al convegno “Il Sogno Europeista è nato qui. Una sfida da completare”.
Pochi minuti orsono, qui di fronte, abbiamo scoperto la targa intolata ad Alero Spinelli, per il suo primo discorso Europeista avvenuto proprio qui a Torre Pellice, 80 anni fa, era il 31 agosto 1943. Sulla targa è scrio “passa dai piccoli luoghi la grande storia e la speranza di pace che nutre l’Unione Europea”.
Vedete, a volte la lontananza delle aree interne dal centro legislavo ci fa apparire lo Stato distante e le azioni portate avan sui singoli territori ci possono sembrare baaglie inuli, marginali o di poco conto, ma la Sua presenza oggi, a Torre Pellice, Signor Presidente, in questo piccolo luogo italiano ci inorgoglisce e ci dimostra come le comunità tue, insieme, possano concorrere al benessere dello Stato e forfica in noi amministratori locali l’idea di quanto la nostra Repubblica sia una ed indivisibile.
Signor Presidente, la sua visita in queste valli a pochi giorni dall’ 80 esimo anniversario dall’8 seembre 1943 ha per noi ancor più significato. In quei giorni un giovane ragazzo, suo conterraneo, saliva i seneri di queste montagne per unirsi con mol altri giovani uomini e donne alla loa pargiana. Queste valli hanno pianto, hanno combauto e hanno gioito per un’Italia giusta, libera e democraca. Quei nostri ragazzi hanno scelto di far parte dell’Italia giusta e anche in quel momento la grande storia è passata per la nostra comunità e ha dato a quei giovani ragione. Quel suo giovane conterraneo Signor Presidente era mio nonno, e a lui e a tu quelli come lui sali in montagna, come Giulieo presente in sala, oggi vorrei rendere omaggio insieme a Lei.
La sua partecipazione, Signor Presidente, a questa giornata che proseguirà in aula sinodale tesmonia la vicinanza e rilevanza delle comunità delle CHIESE delle valli valdesi. Queste valli hanno pato e sofferto nei secoli dure persecuzioni e conquistato le libertà civili e religiose grazie al loro impegno, alla loro operosità e alle loro giuste rivendicazioni. Sono sta promotori della Carta di Chivasso nel 1943, e accolto fraternamente Spinelli perché sono certo che, “chi più ha sofferto…. più brama la pace” e queste valli valdesi e queste comunità per storia e per religione hanno molto sofferto e la speranza di pace sia qui più senta e ardente che altrove.
Concludo ringraziandoLa profondamente perché oggi non solo doniamo alla nostra Torre Pellice un giorno di felicità, un giorno di gioia per senrsi bella ed importante, ma soprauo lanciamo un segnale, volgiamo un monito, dedichiamo un’esortazione alle nostre giovani generazioni. Oggi confermiamo che “passa dai piccoli luoghi la grande storia e la speranza di pace” ed ognuno di noi DEVE e PUO’ fare la sua GIUSTA parte.
Grazie mille Presidente».
Foto di Pietro Romeo