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La Cina dei “crediti sociali”

Entrata in vigore a novembre 2021 in Cina, la Pipl (Personal Information Protection Law) è la prima legge che regola e delinea la struttura portante del regime cinese in materia di protezione dei dati e che stabilisce norme precise sul loro trasferimento: regole d’impatto sia sulla popolazione sia sulle società che operano nel Paese. La Cina è leader mondiale nelle tecnologie di sorveglianza e in patria ha realizzato una sorta di contratto sociale con i suoi cittadini: «dati in cambio di sicurezza». L’art. 28 definisce le informazioni sensibili e personali, perché qualora trapelassero (o fossero usate illegalmente) potrebbero essere un grave danno di natura economica e patrimoniale, oltre per la dignità delle persone. L’articolo infatti raggruppa i dati biometrici, le convinzioni religiose, la designazione di uno status speciale, dati sanitari, dati finanziari, dati relativi alla localizzazione dell’individuo, nonché le informazioni personali dei minori di 14 anni. Abbiamo chiesto al sinologo Simone Pieranni (autore, tra gli altri di, Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina; La Cina nuova e Il nuovo sogno cinese) alcune considerazioni.
– Pochi giornalisti, in Italia, conoscono la Cina bene quanto lei. Ci ha vissuto a lungo, ne scrive, ne discute, ne ragiona ogni giorno. Ha dedicato all’argomento libri e podcast. Partiamo da qui: è possibile trovare un punto di vista equilibrato, sulla Cina?
«È possibile, certo. Il problema sta nel fatto che l’informazione mainstream assume sempre un punto di vista eurocentrico. Sarebbe più utile e giusto inserire la Cina nel contesto globale, perché quello che accade in quel luogo riguarda tutti. È un fatto, i problemi che si affrontano a Pechino sono gli stessi del resto del mondo sviluppato: disoccupazione giovanile, invasività della tecnologia, raccolta e trattamento dei dati. Insomma: non possiamo più essere né “essenzialisti” né “relativisti”».
– Che cosa vuol dire?
«C’è un pregiudizio potente, che schiaccia la Cina su uno stereotipo. Parliamo di democrazia, per esempio: in Occidente si dice che, poiché a Pechino non c’è mai stata, allora non potrà mai esserci. Ma nemmeno il comunismo c’era mai stato, prima di Mao, no? Ecco, questo io lo chiamo: “essenzialismo”, che si accompagna al relativismo: una lettura basata sul fatto che “i cinesi sono diversi”. Le semplificazioni sono pericolose».
– Il controllo sociale, il sistema dei “crediti sociali”. Ne ha parlato diffusamente, nei suoi libri, puntualizzandone alcuni aspetti critici. Come condizionano la vita dei cittadini cinesi?
«Sui crediti sociali c’è stata una decisa retromarcia. Certo: ci sono delle black-list ma, rispetto a quanto si sperimentò in passato, si è tornati risolutamente indietro. Più che sui singoli cittadini, oggi il credito sociale si sta delineando come uno strumento di controllo sulle imprese, sia cinesi sia straniere. Il problema, del resto, è globale: esiste la tendenza ad adottare forme di punteggio sociale anche in Europa e nel resto del mondo. Prendiamone atto: le nuove tecnologie concorrono a ridefinire il concetto stesso di cittadinanza; accade ovunque, non solo in Cina».
– Le regole vengono comunque sempre stabilite dal Partito comunista…
«È stato proprio Xi Jinping a dire: “Nord, Sud, Est, Ovest, Centro: tutto è partito”. Ma non è una banalizzazione autoritaria. Alcuni esempi: è stata approvata una legge contro il deep-fake, nonostante i dubbi sollevati sull’indebolimento che ne sarebbe derivato nel confronto con gli Usa. Sulla privacy si è adottato un modello molto vicino a quello europeo. E si è andati anche oltre: oggi gli “algoritmi di raccomandazione”, il marketing applicato ai motori di ricerca, sono regolati per legge; da noi, in Occidente, quest’attenzione non c’è. E infine, anche sull’intelligenza artificiale (Ia), è in discussione una bozza di regolamentazione. Sono segnali importanti».
– In un suo articolo per Il Manifesto del febbraio scorso, citava un libro di Kate Crawford, esperta australiana di Intelligenza artificiale (Ia), intitolato Atlas of AI. Power, Politics, and the Planetary Costs of Artificial Intelligence. Apriva il pezzo con una frase a effetto: «L’intelligenza artificiale non è né intelligente né artificiale». Divertente. Ma che cosa significa, che è stupida e naturale?
«È un paradosso che usa la stessa Crawford. Ma anche su questo, manca equilibrio: nessun esperto della materia giudica quella artificiale come una forma vera e propria di “intelligenza”. In questo senso è “stupida”: manca di profondità. Ed è “naturale” perché si fonda sullo sfruttamento del lavoro umano: tutti i dati di cui si nutre sono il frutto del lavoro di migliaia di persone che “taggano” la rete e i suoi flussi, inseriscono nei sistemi dati e informazioni indispensabili per farla funzionare».
– In quell’articolo scrive che «l’Ia è uno strumento di dominio». E poi: che avrebbe una struttura modellata sulla mentalità dominante. Ha registrato sfumature diverse, in Cina?
«L’intelligenza artificiale, come qualsiasi altra tecnologia, è uno strumento di dominio finché la proprietà della struttura posta alla sua base – come i BigData – resta privata, sottratta al controllo dei cittadini. Il riferimento alla mentalità dominante è implicito, ma riguarda soprattutto i modelli predittivi. Mi spiego: così come, negli Usa, la più alta probabilità di infrangere la legge viene registrata tra le minoranze, è inevitabile che ciò dipenda anche dal fatto che i sistemi di controllo sono alimentati dai “maschi bianchi” che vi inseriscono i dati. In Cina è lo stesso: all’alimentazione dei sistemi lavorano maschi Han, il gruppo etnico dominante. Non c’è nulla di neutrale né di asettico, in queste applicazioni tanto complesse: se rispecchiano la mentalità dominante è proprio perché ne sono una derivazione».
– La Cina è un protagonista sempre più autorevole in ogni quadrante planetario: persino nella terribile guerra europea, tra Russia e Ucraina, ha saputo ritagliarsi un ruolo diplomatico di primissimo livello. Ebbene: come si concilia tutto questo apparente “buon senso globale” con la forma autoritaria del potere?
«Da un punto di vista cinese non c’è contraddizione: l’obiettivo è stato sempre quello di essere solidi internamente per poi diventare forti all’esterno. Si dice che Mao rialzò in piedi la Cina, che Deng l’abbia fatta ricca, e che Xi l’abbia fatta diventare potente… così sperano a Pechino, almeno. L’obiettivo principale del Partito è sopravvivere e rimanere centrale nel sistema».
– Un’ultima curiosità. Mao fondò la Cina moderna smantellando il passato a colpi di scure. Deng e Jiang Zemin traghettarono Pechino nella tempesta del capitalismo postmoderno. Che cosa penseremo di Xi Jinping, tra vent’anni? Che avrà digitalizzato le glorie e le miserie del Celeste Impero?
«La storia la scrive chi viene dopo, capitava così anche con le antiche dinastie, che scrivevano la storia di chi li aveva preceduti… È accaduto anche con Deng Xiaoping che ridimensionò la figura di Mao Zedong; con Jiang Zemin (successore di Deng), che inserì il pensiero di Deng nel solco della storia del Partito… Che cosa si penserà di Xi dopo la sua uscita di scena dipenderà proprio da chi sarà il suo successore. E su questo punto i dubbi sono molti».
– Perché?
«È un aspetto insolito del momento attuale; rispetto agli ultimi 40 anni di storia cinese. Non c’è alcun erede designato di Xi Jinping: oggi non è chiaro chi arriverà in futuro. Si badi: negli Stati autoritari questo è un particolare tutt’altro che secondario, è dirimente. Infatti, se ci sarà uno scontro di successione, questo sarà un problema non solo per la Cina, ma per tutto il resto del mondo. In Occidente, a ogni passaggio di testimone, si sono spesso annunciate grandi novità, grandi cambiamenti, addirittura capovolgimenti, sempre smentiti dai fatti: è il classico pregiudizio occidentale, come dicevamo poco fa. Bisognerebbe essere un po’ più cauti».



* giornalista di Report/Rai3, tecnologo e progettista multimediale