17048487967_f24d4b1b4d_b

Il «giardino conteso» dei generi letterari

Come lettori della Bibbia siamo abituati a confrontarci con la sua natura composita, fatta di generi letterari diversi: la Torah, i libri storici, i libri profetici con i loro toni di ammonimento, i libri sapienziali, e ancora i racconti evangelici, la spiegazione per mezzo di parabole, la riflessione teologica pura delle epistole paoline. Tutti scritti che hanno anche una loro rilevanza materiale: una materialità della parola e delle parole, che deve descrivere l’indescrivibile, lo spirituale. Forse siamo più abituati di altri a farci interrogare dalla riflessione filosofica di alcuni libri.

Flavio Ermini, ne Il giardino conteso – L’essere e l’ingannevole apparire* percorre con la consueta profondità i temi a lui cari, attraverso vari «generi letterari»: dal saggio all’aforisma, dalla narrativa alla poesia. E proprio il dire poetico, la poesia pensante, il pensiero poetante sono la cifra del suo filosofare. Stupisce in particolare la capacità di condensare, talora in poche righe, immagini e riflessioni intorno a una delle questioni di fondo che toccano la vita degli umani, pur sovente inconsapevoli: il confine labile, mutevole e per lo più oscuro fra l’essere e l’apparire. Scrive ad esempio l’autore: «Il mortale umano è destinato a nascere e nella notte che incombe a ergersi nell’impensabile spazio tra l’essere e il mondo dell’apparenza; per restare alfine imbrigliato in una soglia caratterizzata da una porta girevole e dal suo intrinseco aprirsi-e-chiudersi».

Nella scrittura di Ermini si scorge la traccia dei «maestri del sospetto» (Marx, Nietzsche, Freud) che tanto misero in questione le spiegazioni del mondo (fra le quali quelle che vengono dalla fede cristiana) ed è vivo e appassionato il dialogo con poeti, narratori e filosofi, assai oltre la semplice citazione. «Siamo chiamati a prendere in parola la parola», facendone la dimora dell’essere. In tal modo abbiamo la possibilità di sottrarci al tempo inteso come fluire interminabile dal passato al presente fino al futuro, accedendo invece «al tempo albale proprio dell’essere». Ѐ il tempo nel quale va «ogni volta nominato e pensato con parole iniziali» ciò che si distacca dall’ápeiron, «l’informe indefinito e indefinibile» indicato da Anassimandro, prima che vi faccia ritorno.

Fra gli affluenti «che si gettano nel mare dell’essere» vi è «il nero dell’inchiostro», nel quale «c’è la facoltà di manifestare sotto una forma sensibile quanto è annunciato dai sensi in modo oscuro e frammentario», restituendo «leggibilità a qualcuno dei misteri che la terra custodisce». Senza dimenticare che «il pensatore che depone la spada – e in pari tempo abbraccia le istanze della poesia – si sente di fronte alla propria stessa parola nell’atteggiamento di uno che di quella parola si pone in ascolto e che lentamente in essa s’introduce», «consapevole che l’atto dello scrivere ha lo scopo di cambiare l’atto del vivere».

Si può non concordare ogni volta con il dire di Ermini, ma è difficile sottrarsi alle sue sollecitazioni. Dinanzi a esse proviamo uno strano turbamento, sentendo che quel dire non ci è estraneo, pur sfidando le nostre illusioni.

* F. Ermini, Il giardino conteso – L’essere e l’ingannevole apparire, Moretti & Vitali, pp. 244, euro 18,00.

Foto via Flickr