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We are family

«La nostra comprensione della famiglia deve andare oltre il modello di famiglia nucleare per abbracciare una grande diversità di relazioni». Così Gail Adcock, responsabile per lo sviluppo dei ministeri per la famiglia della Chiesa metodista della Gran Bretagna, ha riassunto il concetto principale emerso dalla ricerca «We are Family», presentata gli scorsi 11 e 12 settembre presso la Hope University di Liverpool. Dalle famiglie monoparentali a quelle allargate, fino a quelle che comprendono una badante; dalle coppie eterosessuali senza figli a quelle dello stesso sesso con figli; l’intento dei metodisti britannici è dar vita a una chiesa che sappia accogliere tutte queste diversità.

La ricerca «We are Family», eseguita in cooperazione con il «Consultative Group on Minitry among Children» (Cgmc), è stata condotta all’interno delle chiese metodiste per analizzare il tipo di attività e di cura che le singole comunità offrono alle famiglie: chi vi si dedica, quali e quante risorse vengono investite, che tipo di formazione viene offerta, se esistono progetti in rete con enti esterni alle chiese – solo per citare alcuni degli ambiti investigati, tutti inerenti al ministero per la famiglia. Questo tipo di ministero ecclesiastico è un’evoluzione delle attività dedicate dalle chiese all’infanzia e alla gioventù ed intende promuovere un approccio alla chiesa intergenerazionale. Come si legge nella ricerca «è ormai generalmente riconosciuto che il lavoro condotto con i bambini o con i giovani separatamente sia meno efficace di un ministero che coinvolga anche i genitori e la famiglia allargata». Una prospettiva olistica e intergenerazionale in vista di una ‘formazione permanente alla fede’, interna alla chiesa, e di servizi di sostegno alle famiglie che possono variare dai gruppi di sostegno parentali all’aiuto psicologico o, in un tempo di regressione del welfare, economico e sociale. «Tutte queste attività presuppongono però il riconoscimento della pluralità di famiglie oggi esistenti», ha sottolineato Adcock. «Se vogliamo essere degli operatori familiari efficaci non dobbiamo presumere che tutte le famiglie siano uguali. Dobbiamo avvicinare ogni famiglia nella sua unicità e sostenerla nel contesto e nelle circostanze in cui essa realmente vive».

Un segno evidente che le chiese hanno preso coscienza dei cambiamenti ma non li hanno ancora assunti è dato dal linguaggio, che rimane ancorato all’idea di famiglia nucleare, sancita dal matrimonio: «E’ interessante notare – si legge nel documento – che sebbene molte chiese abbiano accettato una più ampia interpretazione di famiglia, il linguaggio ecclesiastico non si è trasformato per riflettere questa novità, ma è rimasto più tradizionale». Un primo passo in questa direzione è l’introduzione del termine «comunità domestica» (household).

Il rapporto completo «We are Family», il cui titolo richiama una famosa hit delle Sister Sledge, è disponibile cliccando qui.

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