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A Sarajevo il cinema dialoga con l’Europa

Il cinema del sud est Europa negli ultimi anni si sta guadagnando sempre più spazio nel panorama cinematografico europeo e internazionale. È il caso del cinema romeno, che negli anni ha vinto premi importanti in molti festival, ed è il caso di quello turco e bosniaco. Sono paesi che non si possono permettere grandi produzioni ma che, grazie a talento e buone scuole, stanno crescendo e si stanno valorizzando. L’evento più importante legato al cinema di queste zone è il Sarajevo Film Festival, arrivato alla 21ª edizione, che si svolge dal 14 al 20 agosto 2015.

Ce ne parla Nicola Falcinella, esperto di cinema e collaboratore dell’Osservatorio Balcani e Caucaso.

Guardato nel contesto storico e geografico, e a vent’anni dalla guerra in Bosnia il festival risulta particolarmente interessante. Che ruolo ricopre nel panorama cinematografico internazionale?

«Il festival è nato nel ’95, nell’estate dell’ultimo anno dell’assedio di Sarajevo, e col tempo è molto cresciuto e si è guadagnato un ruolo di rilievo nel panorama dei festival europei; è probabilmente il più importante festival dell’Europa sud orientale. Un appuntamento immancabile per chi si occupa di cinema di quelle aree, sia per i cineasti che per gli addetti ai lavori. È un momento di ritrovo per i registi e produttori che si raccolgono intorno a un evento per il quale sono nate varie iniziative collaterali: si fanno vedere film nuovi, si progettano quelli che verranno e si fanno crescere nuovi talenti. È importante in tanti sensi».

Un festival che ha ricoperto un ruolo importante anche nella vita e nella ripresa culturale del paese?

«Indubbiamente. Il Film Festival di Sarajevo è l’appuntamento culturale più importante dell’anno per la città, un momento di incontro con tante persone che arrivano dall’estero e un momento di fermento per tutta la città. C’è la parte più glamour col tappeto rosso, ci sono le proiezioni che richiamano i cinefili, ci sono le sale e le arene all’aperto. In questi dieci giorni tutta la città è coinvolta e tutto gravita intorno al festival e alle varie location.

Si continua ad associare Sarajevo alla guerra e il retaggio è ancora presente, però, soprattutto negli ultimi anni, le cose sono cambiate. Sebbene l’economia sia abbastanza ferma, i soldi girino nelle mani di pochi, ci sia molta corruzione e la maggior parte della popolazione non sia coinvolta nella trasformazione, l’aspetto della città è cambiato e non è onnipresente il rimando post bellico.

Che le cose stiano cambiando si vede anche nei film: le pellicole non parlano più soltanto della guerra. È vero che un film che è stato molto visto e si è fatto apprezzare è No Man’s Land, di Danis Tanović, che parla di un episodio della guerra, però la tendenza è quella di raccontare storie di questi anni e di questo periodo, come fa per esempio il film bosniaco in concorso, Our Everyday Life di Ines Tanovic, una regista debuttante nel lungometraggio. Il film racconta la delusione di chi si sente un po’ fallito per non essere riuscito a sfruttare gli ultimi vent’anni; racconta anche di chi torna dall’estero dopo essere andato via negli anni della guerra e adesso sente il desiderio di ritornare in patria. Parla dei sentimenti di adesso.

C’è ancora una ricerca di verità legata ai tanti crimini che ancora non hanno dei colpevoli, ma c’è anche una Bosnia che al cinema cerca di riflettere su cosa significa che sono passati due decenni dagli accordi di Dayton».

A partire dai titoli dei film in concorso e in programma in questa edizione possiamo dire che c’è un’evoluzione e una voglia di aprirsi e andare avanti?

«C’è voglia di andare avanti ma anche di continuare a indagare sulla memoria. Non dobbiamo dimenticare che dal punto di vista amministrativo, la Bosnia è divisa in due: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina e la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina. Ma dal punto di vista della memoria e dell’appartenenza le divisioni sono molte di più.

I registi che arrivano da diverse esperienze e nazioni nate dalla fine della Jugoslavia, gli artisti in genere, sono quelli che più riescono a creare un dialogo tra loro. Un dialogo che forse per le persone comuni è più difficoltoso. In questi anni si sono create molte collaborazioni tra i paesi dell’ex Jugoslavia: per esempio, il film di Ines Tanovic di cui parlavo è una coproduzione di Bosnia, Croazia e Slovenia; anche il film croato già premiato a Cannes, Zvizdan di Dalibor Matanić, film piuttosto bello anch’esso in concorso, è una collaborazione tra Croazia, Serbia e Slovenia. Questi paesi nel cinema collaborano ed è un auspicio che possano tornare a collaborare pienamente anche su altri settori».

Dal punto di vista puramente cinematografico, come ti sembra il programma di quest’anno?

«Mi sembra un buon programma. Ci sono dieci film nel concorso lungometraggi, un concorso cortometraggi e una sezione documentari. C’è anche un panorama abbastanza ricco sulla produzione internazionale con il nuovo film di Woody Allen che è passato a Cannes e sarà proiettato nell’arena all’aperto di Sarajevo; c’è un premio alla carriera che sarà dato al regista canadese Atom Egoyan. In generale c’è una proposta molto ricca verso la città e passeranno al festival molti film che avranno l’unica occasione per essere proiettati in Bosnia.

Molti dei film del concorso, sette su dieci, sono già passati da altri festival e questo da una parte è un segnale che i grandi festival, soprattutto di Berlino, Cannes, Venezia o Locarno danno un’attenzione maggiore a queste cinematografie rispetto a qualche anno fa. Dall’altra parte, questo può essere il piccolo limite: il festival di Sarajevo negli ultimi anni sta puntando su valori più sicuri, si prende meno rischi e sceglie più film che hanno già avuto una buona accoglienza internazionale.

Per chi è particolarmente interessato al cinema dei Balcani è probabile che ritrovi film già visti in altri festival e le vere novità non sono moltissime».

Foto “Sunset in Sarajevo” by Jon Worth from Belgium – Sarajevo – sunset Uploaded by Smooth_O. Licensed under CC BY 2.0 via Wikimedia Commons.