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Pnrr e Case di comunità: manca la partecipazione

Il 12 gennaio la Conferenza Stato-Regioni ha sancito l’Intesa per la ripartizione delle risorse alle Regioni per progetti per la salute del Piano nazionale di Ripresa e resilienza (PNRR). Delle risorse a disposizione 1 miliardo di euro è destinato alla realizzazione di 400 Ospedali di Comunità e 2 miliardi sono stanziati per realizzare 1.350 Case di Comunità.

Il termine comunità ha molti significati: politici, economici, linguistici, scientifici ed altri, difficile anche darne un elenco sufficientemente rappresentativo.  Nel quotidiano protestante indica la comunità di fedeli uguali fra loro, che condividono come credenti di diversi momenti e di diverse attività. Convivere, partecipare, discutere senza rapporti gerarchici: rapporti formali o sostanziali che costringono molti ad ascoltare pochi. Dobbiamo sempre cercare di ampliare la partecipazione nel culto, nelle assemblee, nelle riunioni.  Quando questo non accade dobbiamo impegnarci, proprio come comunità, per superare questa difficoltà. 

Tornando al PNRR, gli Ospedali di Comunità erano stati già previsti  nel 2015, (DM 70/2015) come soluzione intermedia fra l’assistenza domiciliare e l’ospedale, per pazienti assistibili potenzialmente a domicilio, con mancanza però di idoneità del domicilio (strutturale e familiare) e/o di sorveglianza infermieristica continuativa: gestiti da personale infermieristico, con l’assistenza medica dei medici di medicina generale, con un numero limitato di posti letto (15-20) per una degenza media è di 15/20 giorni. Gli Ospedali di Comunità attivi nel 2020 erano 163, 11 Regioni ne erano sprovviste. Le relazioni con i servizi sociali per eventuali prese in carico successive al ricovero seguono le strade di analoghi rapporti che si hanno per le degenze ordinarie. Le Case di Comunità sono una evoluzione delle Case della Salute, promosse nel 2006, al fine di erogare in uno stesso spazio fisico i servizi sociali e i servizi sanitari territoriali, compresi gli ambulatori di Medicina Generale e Specialistica ambulatoriale. “In essa si realizza la prevenzione per tutto l’arco della vita e la comunità locale si organizza per la promozione della salute e del benessere sociale.”(Min. della Salute). Dal 2006 sono state aperte 493 Case della Salute, 8 Regioni ne sono sprovviste. Spesso è stata solo cambiata la targa ai vecchi poliambulatori; è stato difficile coinvolgere i medici di medicina generale e promuovere l’integrazione sociosanitaria. Si sono però sviluppate anche esperienze significative nelle quali le Case della Salute sono diventate uno strumento di servizio importante ed efficace. La trasformazione da Case della Salute a Case di Comunità comporta il coinvolgimento complessivo delle risorse di ciascun territorio, della comunità appunto, per realizzare una infrastruttura di riferimento riconoscibile, accessibile in qualsiasi orario. Esse devono diventare il luogo di accoglienza, di presa in carico e di promozione della cultura della salute: devono colmare il vuoto del territorio e affermare concretamente il diritto delle persone alla salute, in tutte le sue articolazioni di benessere fisico, psichico, affettivo, relazionale. Dopo l’approvazione il PNRR propone tappe ben precise per i passi successivi. Le Regioni definiranno il proprio piano operativo entro il 28 febbraio 2022 ed il 31 maggio 2022 scade il termine entro il quale sottoscrivere il Contratto istituzionale di sviluppo. Entro la fine del 2022 dovranno essere approvati i progetti per la realizzazione di almeno 1.350 Case di Comunità e 400 Ospedali di Comunità, la cui realizzazione inizierà nel 2023 per essere operativi entro il secondo trimestre 2026. Andrà anche fatta una seria programmazione di assunzione del personale entro questo termine, per evitare che sia sottratto agli altri servizi, come stiamo subendo anche noi alle RSA.

Ci poniamo una domanda legittima: ma in tutto questo percorso le comunità dove sono? Da più parti è stata richiesta una partecipazione attiva, soprattutto da parte del Terzo Settore, attivando percorsi di coprogrammazione, coprogettazione o almeno di consultazione. Anche il Consiglio dell’Unione europea nella Decisione di approvazione della valutazione del PNRR dell’Italia ha raccomandato di “…coinvolgere tutte le autorità locali e tutti i portatori di interessi, tra cui le parti sociali, durante l’intera esecuzione degli investimenti e delle riforme inclusi nel piano”. Ciò nonostante, in questi mesi non si è visto un coinvolgimento reale ed esteso. Prevale forse la sensazione che il coinvolgimento possa appesantire e rallentare il percorso, fortemente centralizzato nelle scelte nazionali e regionali. Il percorso democratico di partecipazione appare come una sorta di zavorra, per cui la partecipazione alla fine si riduce spesso a chiedere rituali pareri su decisioni già prese. Poche sono le eccezioni. Esiste purtroppo incapacità e debolezza istituzionale a governare i processi partecipativi: la comunità, quindi, è vista solo come destinataria passiva dei servizi, con il rischio che prevalga una logica prestazionale rispetto ad un percorso effettivo di presa in carico, arricchito dalla partecipazione e dal capitale sociale di ciascuna zona. Noi, piccola realtà in questo paese, cerchiamo anche con validi compagni di strada di mantenere aperta questa prospettiva, anche per evitare derive privatistiche che ancora una volta condannerebbero il territorio ad essere privato di una valida infrastruttura sociale, sociosanitaria e sanitaria.