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Legge 194. Una quarantenne irrisolta

Il 22 maggio 2018 la legge 194 compie quarant’anni. Quarant’anni di successi, delusioni e ostacoli. I successi: fine dell’aborto clandestino e drastica diminuzione degli aborti legali. Delusioni e ostacoli hanno a che fare con la mancata applicazione della legge (prevenzione, consultori, contraccezione), con l’obiezione di coscienza e il revival integralista antiabortista, trasversale alle destre religiose e laiche. Con l’ingresso nella professione medica di tante donne, si è alzato il numero di obiettrici (7 su 10 gli obiettori di coscienza, secondo dati ministeriali). Ne parliamo con Marina Toschi, vice presidente di Agite (Associazione ginecologi territoriali).

«A praticare interruzioni di gravidanza sono i medici “vecchi”, uomini e donne. I giovani in genere non le fanno, si occupano di cose considerate più scientifiche e certo più remunerative, come la procreazione medicalmente assistita. L’IVG non porta soldi, non porta gloria, non si è obbligati, quindi la si lascia a poche/i veterane/i che ancora lavorano, spinti anche dal ricordo delle donne che morivano di aborto. Sono molte anche le farmaciste e le ostetriche che obiettano. Ai giovani medici non viene nemmeno fatto vedere come si fa una IVG; dopo 5 anni di specializzazione non hanno mai assistito a un colloquio per una IVG. Magari sono bravissimi ecografisti, ma se c’è qualcosa che nel feto è gravemente anomalo, a chi delegano l’eventuale IVG sopra i 90 giorni? Sono pochi gli Ospedali dove questa è offerta. In Italia, inoltre, c’è un problema sulla RU486. Qui possiamo usarla entro le 7 settimane di gravidanza, nel resto del mondo si somministra entro le 9 settimane. Se la maggioranza delle interruzioni avvenissero non per via chirurgica, ma per via medica, sarebbe molto più semplice sia per le donne sia per l’operatore; si potrebbe fare in consultori ben attrezzati, funzionanti e in contatto con gli Ospedali. Un’altra criticità riguarda la spinta culturale crescente contro le donne: abbiamo smesso di stare a casa a fare i bambini. E che le donne vogliano decidere sulla loro sessualità e riproduzione è una cosa che non piace ancora a nessuno. Poi c’è il messaggio sovranista che associa gli aborti all’invasione dei migranti».

A confermare questo accostamento, Francesca Koch, presidente del consorzio Casa Internazionale delle donne di Roma, che recentemente ha subito un pesante attacco con l’affissione di uno striscione contro la legge 194 e lancio di volantini. Fra gli slogan: non vogliamo immigrati, Italia agli italiani. Come a dire, se le italiane facessero più figli, niente più invasione etnica. «Il clima fascista si vede anche nello spazio dato ai “pro-vita”, addirittura invitati in Senato con diritto di parola a diffondere dati falsi. Anche a livello europeo vediamo preoccupanti iniziative su diritti che pensavamo acquisiti. Serve un rilancio della 194 e della convenzione di Istanbul, con uno sguardo all’aspetto globale dei movimenti delle donne; negli ultimi mesi abbiamo visto in Polonia, Argentina, Brasile il ritorno di politiche fanatiche, repressive, fondamentaliste e reazionarie, pensiamo a Marielle Franco, assassinata per il suo attivismo. Noi donne ci siamo, siamo già in movimento in tutto il mondo e in Italia. I maschi devono rispettare le scelte delle donne: c’è un momento di restaurazione, lo vediamo nelle vicende di cronaca, nella inenarrabile serie di violenze e femminicidi. Aldilà di pochi circoli illuminati non mi sembra che i maschi stiano scendendo in campo per i diritti delle donne, neanche per il loro diritto di non essere madri».

Per una voce maschile in merito, abbiamo chiesto a William Jourdan, pastore valdese e componente della Commissione bioetica delle chiese battiste, metodiste e valdesi in Italia: «Credo che il coinvolgimento da ambo i lati, maschile e femminile, debba essere nell’ottica della prevenzione. In caso di concepimento, si tratta di condividere una responsabilità che interpella entrambi. Paradossalmente, se da un lato è facile dire “decidi tu”, dall’altro è un modo subdolo di abdicare alla responsabilità del proprio corpo a discapito del corpo femminile. C’è il rischio che il soggetto maschile declini le sue responsabilità, abbandonando la propria compagna. Il primo documento della Commissione sottolineava con forza il principio di autodeterminazione della donna; ritengo che tale riferimento rimanga fondamentale, differenziandolo a seconda di situazioni specifiche ed evitando quindi di far apparire la questione come se si trattasse sempre della prevalenza di una vita sull’altra. Una chiesa che voglia testimoniare la propria posizione contro l’aborto, non partecipa a marce contro normative che garantiscono diritti e sicurezza, cercherà piuttosto di riflettere sui bisogni delle donne. Sui diritti acquisiti, invece, la chiesa non deve arretrare di un centimetro».