racism

Informazione ai tempi del Covid19. Il confine tra giornalismo e discriminazione

Qualche settimana fa, nel corso di un’intervista a Emanuel Rota, docente di Storia, direttore dell’European Union Center dell’Università dell’Illinois, si discuteva di come e quanto la questione razziale entrerà nella campagna elettorale dell’autunno prossimo.

Il professor Rota ricordava la diffusione che, nelle ore successive all’uccisione di George Floyd, ebbe sui media americani la registrazione della telefonata che l’impiegato del negozio in cui Floyd si recò per comprare le sigarette con una banconota da 20 dollari falsa. La telefonata, ricorda il professor Rota, si svolse così:

911: «è un uomo o una donna?» ;

Impiegato: «è un uomo»

911: «è bianco, ispanico o nero?»

Impiegato: «è un uomo»

911: «sì capito, è bianco?»

Impiegato: «no»

911:  «è nero?»

Impiegato: «Silenzio. Pausa. Sospiro… Sì, è nero»

911: «Arriva la pattuglia».

Sono proprio il silenzio e la reticenza dell’impiegato – afferma Rota – a concretizzare la consapevolezza della discriminazione razziale.

Mutatis mutandis anche in Italia, negli ultimi anni si è assistito, a un progressivo sdoganamento nel contesto pubblico di messaggi e di appelli che rievocano forme di espressione e il lessico del “razzismo biologico”. Come sottolinea l’antropologa Anna Maria Rivera “negli ultimi dieci anni si segnala non solo la complicità di quotidiani e di altri media nazionali, ma anche la crescente, diffusa indifferenza finanche verso le più brutali violenze di stampo razzista. Ciò è indizio, e nel contempo concausa, dell’incremento delle attitudini ostili verso migranti e minoranze. A tal proposito: un’analisi delle opinioni e inclinazioni anti-migranti, nel 2019, colloca l’Italia al primo posto con l’8,7%, seguita dall’Ungheria (8,5%), dalla Repubblica Ceca (6%) e dall’Austria (5%)” .

Questo aumento di opinioni xenofobe e razziste si nutre, tra le altre cose, di cornici negative, di racconti sommari e di dati non contestualizzati.

Due esempi arrivano dalle cronache di questi giorni: i contagi  da Covid-19 – e i dati – relativi alla popolazione straniera; e gli arrivi in Italia attraverso la “rotta balcanica” con il  conseguente grido di allarme “invasione”. 

I dati forniti dal Ministero della Salute circa la situazione dei contagi suggeriscono che la popolazione immigrata non si ammala di più della popolazione italiana: “Prima del caso di Treviso – spiega la  sottosegretaria alla Salute in un’intervista a Avvenire  – in cui verificheremo se i controlli sono corretti nel circuito dell’accoglienza avevamo contato 239 contagi”. Il caso avvenuto in un centro di accoglienza a Treviso – 233 persone positive su 285 – si configura come una questione di salute pubblica, di verifica della correttezza delle procedure sanitarie. Alcuni titoli, invece, riportavano parole come “untori”, “centri degli orrori”, “profughi infetti”. Molti di noi sarebbero inorriditi nel leggere titoli siffatti: “Contagi nelle strutture degli anziani lasciati liberi di diffondere il virus”; “nelle fabbriche degli orrori raddoppiano i lavoratori infetti”; “Colpa delle donne tra 50-59 anni: 1 contagio ogni 4 uomini”. Come se anziani, lavoratori, donne, al pari di uomini, ragazzi e soggetti a rischio fossero colpevoli di diffondere il virus. Eppure questa soglia di (in)tolleranza sembra abbassarsi quando le persone sono di origine straniera, anche in ragione di una abitudine informativa a stabilire una connessione tra immigrazione e allarme sanitario, tra migranti e minaccia di contagio.

Il secondo esempio riguarda i dati relativi  agli arrivi in Friuli Venezia Giulia attraverso la cosiddetta “rotta balcanica”, l’itinerario seguito da migranti, richiedenti asilo e rifugiati in viaggio verso l’Europa occidentale e settentrionale attraverso Bosnia Erzegovina, Serbia e Croazia.

Il dato più evidente emerso nel Report Statistico 2019 sul sistema di accoglienza nella città di Trieste è proprio la crescita, nel corso del 2018, e soprattutto nel 2019, degli arrivi di richiedenti asilo a Trieste che sono cresciuti, con una media di presenze mensili intorno a 1.000/2.000 persone, quasi il triplo rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. I primi 4 mesi del 2020, invece, come afferma Gianfranco Schiavone, Presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà-Ufficio Rifugiati, diversamente dalla notizie allarmistiche, sono in linea con l’annualità precedente, anzi con un calo di presenze nei mesi di aprile e maggio.

Linguaggio, accuratezza delle informazioni e contestualizzazione dei dati non sono solo essenziali per la correttezza dell’informazione, ma anche per consolidare coesione sociale e cultura dei diritti, indispensabili nelle fasi di crisi.

L’articolo è stato pubblicato per gentile concessione del sito Carta di Roma