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Henry Theiler, un pioniere del tessile nelle valli valdesi agli albori dell’Unità d’Italia

Nella più ampia cornice delle celebrazioni dei 160 dall’Unità d’Italia, che ricorre quest’anno, cade la ricorrenza dell’avvio della produzione tessile a San Germano Chisone (To) a seguito della costruzione di un cotonificio in corrispondenza del ponte sul fiume Chisone, all’imbocco della strada che conduce al paese, voluta e finanziata dal barone di Pralafera Paolo Mazzonis. Quest’ultimo, che aveva già maturato una considerevole esperienza nel settore nella vicina Val Pellice, affida la conduzione tecnica del nuovo stabilimento a un perito tessile svizzero residente a Luserna San Giovanni e originario del piccolo villaggio di Wädenswil affacciato sul lago di Zurigo. Il suo nome è Henry Theiler e la sua storia di integrazione, iniziata con un’emigrazione da nord verso sud, merita di essere raccontata.

Henry Theiler arriva, in concomitanza con altri giovani svizzeri (Boringher, Grainicher, Boch, Trog e altri) a Torre Pellice intorno al 1830, accompagnato dalla moglie, Madelaine Rhyner, figlia di un banchiere di Zurigo e, come il marito, di fede riformata. La destinazione del loro viaggio, che li porta dalla Confederazione elvetica alle valli valdesi, è evidentemente collegata, da un lato, alle relazioni di conoscenza che gli abitanti di quei territori intrattengono tra loro e, dall’altro, dalla pressante richiesta di competenze nel settore tessile agli esordi al di qua delle Alpi e già consolidata nel distretto di Basilea-Zurigo (oltreché nel Baden-Württemberg, in Germania, nel Lionese in Francia, e naturalmente e da più tempo, nel distretto di Liverpool-Manchester, nel Regno Unito). Henry Theiler, mettendo a frutto le sue competenze e conoscenze tecniche, lavora in una filatura, in prossimità del fiume Pellice e alla periferia di Luserna San Giovanni, in località Pralafera dove erano già attive le macchine di filatura impiantate da Giuseppe Malan. Il giovane e intraprendente Henry entra, successivamente, in affari con i fratelli Mazzonis i quali, poco dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia e in un clima di ulteriore sviluppo del tessile, gli affidano la realizzazione del progetto e poi la conduzione tecnica del nuovo stabilimento in Val Chisone. La direzione amministrativa del cotonificio viene assunta da Vittorio Widemann, alsaziano proveniente dalla scuola per periti tessili di Colmar, quella contabile da Claudio Simondetti.

Henry Theiler, a testimonianza di una integrazione pienamente riuscita, prosegue, con grande dedizione, la sua attività lavorativa fino a tarda età, contribuendo ad ampliare uno stabilimento che, a fine ‘800, occuperà oltre 800 addetti. Per la sua attività è nominato, nel 1877, da re Vittorio Emanuele II cavaliere dell’ordine della Corona d’Italia. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1880, e quella della moglie alcuni dei loro sette figli tornano ad abitare sulle rive del lago di Zurigo, compiendo così al contrario il percorso di andata; altri rimangono a San Germano, mettendo le radici sulle rive del Chisone. Questi ultimi sposano esponenti di famiglie locali, come i Vinçon, dando numerosa discendenza, diretta e indiretta, ai propri avi.

L’attività del cotonificio di San Germano Chisone proseguirà, nonostante il rovinoso incendio del 1892, sotto la guida della famiglia Widemann, tra alterne vicende e fortune, fino a metà degli anni ’60 del secolo scorso, cessando definitivamente nel 1979.

Gli impianti tessili impiantati in Val Chisone, oltre a quello a San Germano si aggiunse nel 1883 quello di Perosa Argentina sotto la conduzione della famiglia tedesca Gütermann, incisero fortemente sul tessuto economico e sociale di una valle alpina, fino ad allora, dedita all’agricoltura e all’allevamento e, in misura decisamente minore, all’estrazione mineraria, contribuendo all’emancipazione economica di coloro che l’abitavano da secoli abituati a un reddito meramente domestico.

Ciò che colpisce oggi di quella vicenda, trascorso oltre un secolo e mezzo da allora, è la facilità con cui le famiglie svizzere e tedesche si integrarono nelle valli valdesi, probabilmente dovuta, almeno per la maggior parte tra esse, alla condivisione della fede riformata e, forse, di quello che, con una buona dose di approssimazione, chiamiamo comunemente “approccio calvinistico” al lavoro e allo stile di vita. Di sicuro quell’immigrazione portò conoscenze, innovazione e crescita alla popolazione locale di cui oggi è bene conservare memoria ed indicare ad esempio.