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Daniele Garrone: spiegare le ragioni teologiche delle nostre scelte

– Sabato 30 ottobre l’Assemblea della Fedeazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) ha nominato il nuovo Consiglio e le ha affidato, prof. Garrone, il mandato triennale di presidenza. Il 4 novembre scorso, il suo primo e importante impegno ufficiale: la firma del protocollo presso il Viminale (il quinto per la Fcei) per aprire nuovi corridoi umanitari dall’Afghanistan per accogliere 1200 persone, duecento di queste dalle chiese protestanti. Subito un impegno rilevante, allora…

«Anche, però, un inizio significativo. Questo protocollo, come già quello sottoscritto a giugno per un corridoio dalla Libia, vede la cooperazione di due Ministeri, quello dell’Interno e quello degli Esteri, dunque del Governo e dello Stato, con esponenti di quella che chiamiamo per brevità la “società civile”. Questo ci rafforza nella convinzione che i corridoi umanitari e l’accoglienza non vanno ridotti ad azioni caritatevoli ed emergenziali da lasciare alle “anime pie” che si sentono chiamate ad agire così, ma sono misure politiche che potrebbero diventare permanenti e strutturali. Per l’Italia come per i partner europei, perché tutti siamo posti di fronte a crisi epocali, di cui la fuga di chi cerca di avere salva la vita è soltanto la (piccola) onda che ci raggiunge. L’Italia è più coinvolta per la sua vicinanza al nord-Africa e per la sua esposizione sul Mediterraneo, ma il problema riguarda tutta l’Europa. Ci sono poi anche altre rotte…: non manchiamo di sottolinearlo nei nostri numerosi contatti con chiese sorelle, e troviamo rispondenza. Abbiamo visto nel coinvolgimento dei due Dicasteri e nell’impegno da essi profuso i segni di una postura istituzionale e politica che ci rallegra, in un tempo in cui, in tutta Europa, montano parole d’ordine e politiche che recepiscono umori xenofobi e li alimentano con la propaganda».

– Nel suo intervento alla tavola rotonda organizzata dalla Fcei alla fine del triennio (2018-2021) della XIX assemblea, guardando alle importanti azioni intraprese dalla Fcei in questi anni, Lei ha richiamato alla necessità di non rimanere «prigionieri del tratto di strada che si sta compiendo»: serve, cioè, la capacità di guardare sempre oltre, di avere una «visione», un orizzonte, che oggi pare assente dalla nostra politica: come si fa ad avere uno sguardo più acuto, una percezione più articolata della complessità che ci circonda?

«I passi che muoviamo sono parte di un cammino che ha una storia e che deve inserirsi nella prospettiva di lungo periodo della presenza e dell’azione del protestantesimo in Italia. Ciò non vale soltanto per le chiese, ma anche per la cultura e la politica. Serve il senso della storia, bisogna sapere che cosa ci si lascia alle spalle e che cosa si porta con sé. Serve saper guardare oltre l’immediato, pensare anche a medio e a lungo termine. I tempi non aiutano e noi stessi non siamo alieni dallo spirito del tempo. Oggi sembra che tutto debba partire dalle percezioni; fatti, dati e analisi sembrano irrilevanti; sembra che la cosa più importante sia il consenso, i sondaggi contano più dei programmi; le contrapposizioni di brevi affermazioni perentorie, magari gridate, sostituiscono i ragionamenti e le argomentazioni. Le posizioni avverse non vengono confutate, ma si polemizza con un “nemico”. La memoria, criticamente coltivata come storia, è essenziale per poter andare avanti, senza illusioni, e guardando in faccia la realtà anziché ignorarla. Il nostro radicamento nella memoria biblica rafforza questa esigenza e le dà il profilo della vocazione».

– Lei ha anche fatto tre riferimenti biblici che esortano a parlare per sostenere la causa di tutti gli infelici (Proverbi 31, 8), e a cercare il bene della città (Geremia 9, 7), ma soprattutto: «Siate sempre pronti a rendere conto della speranza che è in voi» I Pietro (3, 15): che cosa significa, in questo caso, rendere conto: di fronte a quali interlocutori, in questa epoca di latitanza dell’interesse per Dio?

«Citando quel versetto, ho voluto richiamare soprattutto l’invito a “essere pronti a rendere conto”, cioè ad articolare, a formulare, a esprimere ciò che in ultima analisi ci muove come cristiani evangelici. In genere siamo sempre pronti a parlare delle conseguenze della fede, di quello che si può fare a partire dalla speranza che abbiamo. Insomma ci è facile tradurre tutto in etica. Ma che cosa sappiamo dire di ciò in cui e per cui non dobbiamo né possiamo fare nulla, perché ciò che conta davvero ci può solo essere donato? Insomma che cosa sappiamo dire della nostra fede in Cristo? Su questo piano, siamo pronti a dire qualcosa – e cosa? – a chi ci chiede conto di che cosa crediamo? Spiegare le ragioni teologiche delle nostre scelte: ecco una sfida che sento urgente e impegnativa».

– La Fcei ha una lunga tradizione di impegno per la laicità della scuola e la libertà religiosa. Che spazio avranno nell’agenda della Federazione nei prossimi anni?

«Rimane l’impegno per la legge quadro sulla libertà religiosa, che finalmente sostituisca il “ferrovecchio” della legislazione sui “culti ammessi”. Negli ultimi decenni il profilo religioso dell’Italia è notevolmente cambiato e quelle norme appaiono sempre più in contrasto con i principi di un paese laico e pluralista. In molte, troppe situazioni, è difficile garantire i diritti di chi non si avvale dell’insegnamento della religione cattolica; d’altra parte, una scuola laica deve oggi fare i conti con il pluralismo di posizioni – religiose e non – che sono rappresentate in classe dagli alunni e dalle loro famiglie e valorizzarne la conoscenza nella costruzione di un discorso comune e di una pratica di dialogo e convivenza interculturale che deve comprendere anche i temi religiosi. C’è poi il fronte della “educazione alla cittadinanza”, che non è una “materia” per cui servono degli specialisti, ma l’apprendimento della postura del cittadino della Repubblica, cosciente dei suoi diritti, ma anche dei doveri che a essi sono legati, delle responsabilità che essa implica, di un “patriottismo” che non è identitario o etnico , ma “costituzionale”, cioè legato a un patto tra cittadini, a un vincolo tra liberi.

E la questione dell’accesso alla cittadinanza. L’ingresso in questo patto di chi – “straniero” – è nato e cresciuto qui, qui ha studiato e qui lavora, non va visto come una concessione pietosa, ma come un interesse della Repubblica, che non profitta di sacche di marginalità né le alimenta, ma ha bisogno, appunto, di cittadini. In tutto questo, dobbiamo impegnarci a tutelare diritti di tutti nella prospettiva di rafforzare quella coesione sociale essenziale per il “bene della città”».