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Coscienza e clandestinità

Il 6 febbraio è entrato in vigore un decreto varato dal Consiglio dei Ministri che depenalizza il reato di aborto clandestino disciplinato dalla 194/1978 e innalza le sanzioni fino a 10.000 euro a carico delle donne. Molte associazioni, ma anche alcuni parlamentari, hanno chiesto al governo di ritornare sui propri passi, riportando le sanzioni a cifre simboliche. «Probabilmente nessuno si aspettava questo effetto sull’opinione pubblica diel decreto – dice Chiara Lalli, filosofa, esperta di bioetica e giornalista – che ci fosse questa ondata di proteste a difesa della 194, legge che ormai è oggetto di disattenzione». Sull’argomento non possiamo tralasciare il peso dell’obiezione di coscienza all’interruzione volontaria di gravidanza da parte del 70% degli operatori sanitari nel nostro paese: «bisognerebbe ridiscutere non dell’obiezione ma dei doveri professionali» dice Lalli.

Qual è il problema di questo decreto?

«Il problema innanzitutto è che quando si aumentano delle sanzioni del genere, verosimilmente sono le persone che hanno meno possibilità e meno scelta che ne sono colpite (e che in generale ricadono nella clandestinità), perché è difficile che chi ha strumenti, informazioni e mezzi scelga di abortire clandestinamente e non in un ospedale con tutte le garanzie igienico-sanitarie e con la protezione della legge. Il punto è provare a proteggere le parti più deboli e fragili che potrebbero cadere in questo reato e approfittare di una situazione illegale. Si tratta dell’ultimo tassello di un problema più grande, ovvero non intervenire in maniera sensata e razionale per far sì che il servizio dell’Ivg sia davvero applicato in maniera uniforme sul territorio nazionale. La ginecologa Mirella Parachini, mi raccontava di quante altre difficoltà ci sono oltre a quella più evidente del numero degli obiettori di coscienza, che in alcune realtà impedisce di garantire il servizio. Ci sono altri aspetti che complicano la corretta applicazione, si pensi alla difficoltà con cui è stata accolta la Ru486 l’aborto medico farmacologico, pensiamo a quante difficoltà burocratiche tra prenotazione, rimpallo tra ospedale e consultorio e così via. Ogni volta che parliamo di applicazione della legge 194 scopriamo quanto sia complicata la situazione e di quanto si parli della questione in modo morale, nonostante sia un servizio prima di tutto medico».

Molte associazioni di donne si sono sollevate contro questo decreto

«Quando parliamo di diritti civili, dovremmo dismettere questa visione claustrofobica che vede le donne occuparsi dei diritti delle donne, e lo stesso potremmo dire dei neri, dei genitori, e così via. A proposito della maternità surrogata, leggevo un commento di una donna che diceva “chi non ha l’utero non può parlare” cosa abbastanza agghiacciante, perché ci dà una visione scorretta di come dovremmo arrivare a ragionare. I discorsi sui diritti dovrebbero essere fatti un po’ meno sui propri interessi e un po’ più su buoni argomenti, su analisi razionali e su dati. Troppo spesso sentiamo reazioni o commenti senza queste caratteristiche che però sono necessarie: altrimenti finiamo tutti ad urlare e l’unico criterio per decidere cosa fare è seguire chi urla di più o più a lungo. Questa è l’ennesima buona occasione per dire che di aborto tutti possono scrivere opinioni e parlare, ma in modo razionale e informato. Il problema vale per posizioni a favore e contrarie: se non si sa spiegare perché si è a favore nel dibattito pubblico e quando riguarda i diritti fondamentali non serve a nulla allo stesso modo. E questo vale per tutto: le unioni civili, la maternità surrogata, il fine vita, eccetera. L’unica condizione necessaria e importante è armarsi degli strumenti più adatti per poter discutere, altrimenti è inutile e sfiancante».

A proposito di aborto, lei ha parlato di aspetto medico e aspetto morale: perché il secondo continua a prendere il sopravvento nel nostro paese?

«Le ragioni sono molte e complesse e non riguardano solo l’Italia. Questo passo indietro, dopo un azione di liberazione dagli anni ’70 in poi, è come se non ci fosse stato abbastanza tempo per digerire e per riflettere su alcune questioni, come se si fosse un po’ mollata la presa, come se fosse già un terreno conquistato: invece è evidente che, soprattutto sull’aborto, c’è ancora una fortissima condanna sociale di chi lo sceglie. Oggi sono meno le donne disposte a raccontare il proprio aborto senza vergognarsi, senza sentire il peso di una condanna morale: ricordo che sono più o meno 2 su 3 le donne che lo hanno vissuto. La svolta sulla questione morale è un fenomeno strano, difficile da spiegare in modo esaustivo. Sta succedendo e le responsabilità sono di molti, anche di chi non parla, o di chi continua a portare avanti il discorso dell’aborto come un dolore inevitabile e necessario, o ancora come un atto ripugnante dal punto di vista morale. Dovremmo pensare con un po’ più di calma e soprattutto capire quale alternativa esiste in grado di affrontare il reale. La possibilità di interrompere una gravidanza in modo sicuro normata dalla legge, quale alternativa avrebbe? Siamo davvero convinti che il problema si risolva tornando all’illegalità? Illudendoci che possiamo arrivare a eliminare tutte le circostanze che portano le donne a decidere di interrompere una gravidanza? Si possono fare molte cose, questo sì. Si può fare informazione, educazione sessuale, cercare di rimediare alle condizioni materiali che possono portare all’interruzione: ma il problema non è solo questo. Ci sono tante donne che decidono di farlo perché non vogliono un figlio, o non ne vogliono altri. La realtà è più complessa di un primo sguardo e le soluzioni non sono quelle coercitive, che spingono i più deboli alle soluzioni più terrificanti».

In questo discorso un ruolo importante e con non poche responsabilità è quello dell’obiezione di coscienza. Qual è la soluzione per garantire il diritto all’obiezione senza vietare il diritto alla salute delle donne?

«Questa è una contraddizione nata con la 194, anche se con l’articolo 9 si stabilisce una gerarchia, escludendo la cosiddetta obiezione di struttura: tra la possibilità di obiezione dell’operatore e la richiesta da parte della donna di un servizio sanitario, quest’ultimo dovrebbe essere più forte. Il guaio è che quello che c’è scritto sulla legge non è quello che accade nelle strutture in tutta Italia. A volte non c’è proprio il reparto, o c’è un unico medico non obiettore. La domanda è chi deve farsene carico? Nessuno sembra avere intenzione di affrontare questo problema enorme, che riguarda anche l’insegnamento ai giovani medici e operatori sanitari: questa ritrosia fa si che in molte circostanze si usino delle tecnologie vecchie, meno sicure. La risposta potrebbe essere un’applicazione un po’ più letterale di una legge che già esiste, applicare meglio la possibilità di essere obiettori rispetto al dovere del servizio, e magari pensare a un’attività alternativa per chi obietta, cosa ad oggi non prevista: altrimenti significa un sovraccarico di lavoro per chi non è obiettore. Chi era operatore sanitario negli anni ’70 non sapeva che avrebbe dovuto fare interruzioni di gravidanza, ecco perché la legge doveva prevedere la possibilità di obiezione: ma chi fa questa scelta di vita adesso, invece, lo sa. Bisognerebbe ridiscutere non l’obiezione di coscienza, dunque, ma i doveri professionali. Inoltre è buffo, perché sembra che la coscienza ce l’abbiano solo i ginecologi: molte professioni mettono di fronte a situazioni complicate, pensiamo agli avvocati d’ufficio, che devono difendere assassini e stupratori. Ma poiché hanno scelto quel lavoro, lo fanno anche con doveri sgraditi. Altrimenti, come per i medici, sarebbe il caso di fare un altro lavoro».  

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