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Banche: si torna al 2008?

Il 9 marzo Silicon Valley Bank (Svb), per dimensioni la sedicesima degli Usa, è fallita. La settimana dopo, il titolo di Credit Suisse ha perso in un giorno il 24,2% del suo valore. Si tratta di realtà diverse: Svb era legata al mondo delle startup (piccole realtà con idee innovative e pochi capitali che nascono nel settore dell’alta tecnologia digitale) e investiva fortemente in prodotti speculativi e instabili come le criptovalute. Credit Suisse, troppo grande per fallire, è stata invece travolta da una crisi di liquidità a cui non sono estranei recenti scandali (episodi di spionaggio e riciclaggio, prestiti poco trasparenti). Del resto (ricordo le inchieste, decenni fa, dello scrittore Jean Ziegler) da tempo è noto il marcio che si cela dietro la facciata pulita del sistema bancario elvetico, che ormai non ha più nulla a vedere con Zwingli e Calvino (il Riformatore di Ginevra ammetteva il prestito a interesse, ma ne auspicava una severa regolamentazione pubblica).

La nuova fase di instabilità finanziaria ha molto a che vedere con la pandemia di Covid-19 e con il modo in cui ne stiamo uscendo. Per le imprese hi-tech c’è stata una crescita record: piattaforme come Zoom o Meet sono divenute onnipresenti nelle nostre vite, per lavorare, mangiare, consumare, comunicare, studiare, anche mandare avanti la vita delle nostre comunità. La crescita, significativa quanto inaspettata, dei profitti delle aziende hi-tech, ha ingrossato a dismisura le casse della Svb e di altre banche.

Esse hanno scelto di investire l’improvviso aumento di liquidità per larga parte in titoli di Stato, che consentivano profitti a lungo termine più alti persino dei fondi a più alto rischio. Con l’uscita dalla fase acuta della pandemia e la forte ripresa economica (prima ancora dell’invasione dell’Ucraina che ha solo peggiorato il tutto) si sono manifestate tensioni inflazionistiche. Le banche centrali di tutto il mondo, abbandonando la stagione del quantitative easing (iniezione nell’economia di liquidità a costo quasi zero), hanno scelto di combattere l’inflazione alzando i tassi di interesse (con il rischio di provocare una recessione). Ma l’aumento dei tassi comporta automaticamente una riduzione del rendimento dei titoli: si è quindi determinata una grave crisi di liquidità delle banche che li detenevano.

Ciò ha innescato una corsa allo sportello: in meno di 48 ore i clienti della Svb hanno ritirato 42 milioni di dollari dai loro depositi, e alla banca non è rimasto altro che dichiarare il fallimento. Queste sono dinamiche note da secoli: le nuove tecnologie che consentono di spostare ingenti capitali in tempo reale non fanno che esasperarle e accelerarle (per ritirare tutti i tuoi depositi dalla banca non hai più bisogno di uscire di casa, basta un click sul telefono).

La conclusione di questa vicenda è ancora tutta da scrivere. È probabile che questa volta la crisi sarà tenuta maggiormente sotto controllo. Quindici anni dopo il fallimento di Lehman Brothers (che era quattro volte più grande di Svb) il governo Usa sembra avere imparato la lezione ed è intervenuto prontamente a garanzia dei depositi. Non siamo più nella situazione di deregulation totale del 2008 (anche se i governi avrebbero potuto fare di più) e meno persone credono alla favola del mercato che si aggiusta da sé. Ma rimane il fatto che il settore finanziario è ipertrofico, slegato dall’economia reale eppure troppo influente sulle nostre vite, e in realtà fragilissimo. Tutta l’attività creditizia, indispensabile all’economia ma che non deve diventarne la padrona, si regge in fondo sulla fiducia. Fiducia che è incompatibile, nel medio periodo, con l’assenza di regole, l’illusione del profitto facile, il disprezzo per il contesto e l’avidità che sembrano muovere molti operatori del settore.

Questi “mercati” così impalpabili eppure così influenti, capaci di distruggere ricchezza ma molto meno di crearne, mi fanno pensare alle “potenze” di cui parlava Paolo (cfr. Efesini 6, 12), invisibili ma reali, minacciose ma in fondo già sconfitte. Come credenti abbiamo, una volta ancora, il compito da un lato di richiamare chi comanda alle proprie responsabilità di controllo e correzione delle dinamiche che creano ingiustizia; dall’altro di costruire (non da soli) spazi anche piccoli di resistenza e di alternativa, per un’economia volta alla cura (del pianeta e delle persone) e non alla crescita insensata.