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La vicenda horror del caso Mortara

In un’intervista alla BBC nel 1973, l’attore di film horror Peter Cushing disse: «È sbagliato etichettare così i film che faccio. L’orrore per me è, ad esempio, un film come Il padrino. O qualsiasi cosa abbia a che fare con la guerra, che è reale e può accadere, e purtroppo, senza dubbio, accadrà di nuovo un giorno».

Perciò, anche se apparentemente si presenta come un film storico, Rapito, l’ultimo film di Marco Bellocchio sul rapimento del piccolo ebreo bolognese Edgardo Mortara nel 1858 in nome del Papa Re, si può classificare anche come un horror, perché la vicenda «è reale e può accadere e… accadrà di nuovo». E narra la storia proprio come un classico dell’orrore.

Cos’è papa Pio IX se non il capo dei non-morti, vampiri o zombie, che possono riprodursi solamente trasformando persone vive in cloni di sé stessi e che, per parte loro, considerano gli altri mostri da sconfiggere? Chi sono le donne che devono consolare il bambino cui manca la mamma, se non streghe demoniache? Chi è Salomone Mortara, se non l’ultimo uomo sulla terra (Io sono leggenda di Matheson), l’ultimo padre in lotta contro un mondo dove è legittimo rapire il figlio altrui? E che dire della scena che mostra in parallelo (come fosse un rito vudu) lo schiaffetto dato dal vescovo a ogni catecumeno durante la cresima, da una parte, e papà Mortara che, sconfitto e abbandonato, si prende a pugni la testa, dall’altra?

Soprattutto, chi è Edgardo Mortara? I bambini e gli adolescenti sono spesso al centro della narrazione horror, perché affrontano il momento più delicato nella vita di una persona. Chi sono io? A chi appartengo? Qual è la via per diventare adulto? Shining, L’esorcista e la recente serie Netflix Stranger Things ruotano intorno a queste domande, che fanno tremare e spaventano.
È l’orrore del quotidiano, del bambino perduto nel bosco, rapito dall’orco, senza nessuna speranza di lieto fine per sé. Edgardo subisce la perversa caricatura del dettato evangelico. Perde, infatti, la propria vita per portare la croce, ma è una vita rubata dai mostri e una croce donata dalle streghe, per imprigionarlo in un malvagio incantesimo.

«Vedi, quello è Gesù, era ebreo come te e fu ucciso dagli ebrei», gli dicono. Come può un bambino di sei anni spiegarsi quel che gli è successo? Così Bellocchio mette in scena uno di quei meravigliosi momenti onirici che accompagnano spesso i suoi film: il piccolo Edgardo si reca in chiesa nel silenzio della notte e toglie i chiodi al crocifisso, liberando così Gesù, che scende ed esce dalla chiesa che l’ha inchiodato al muro. I chiodi restano in mano al bambino.

Oltre all’eccellente messa in scena e alle notevoli prove attoriali (Barbara Ronchi, Fausto Russo Alesi e Paolo Pierobon su tutti), il film si distingue per l’onestà intellettuale. Coadiuvato alla sceneggiatura da Edoardo Albinati e Susanna Nichiarelli, Bellocchio confeziona un’opera radicale contro la violenza del potere tout court, che sia quella della chiesa cattolica o quella del neonato Regno d’Italia. Per questo, la scena in cui il giudice regio interroga la serva che battezzò il piccolo Edoardo non mostra alcuna vera rottura con le pratiche del processo inquisitoriale.

Che mondo è quello in cui i gendarmi possono portarti via un figlio nel cuore della notte? È il nostro mondo. È successo anche dopo il rapimento di Mortara. Succede ancora oggi quando qualcuno invoca di strappare i figli a genitori “non conformi”. Rapito è un film che chiama a vigilare contro l’abuso, la violenza e il potere, nemici del diritto e dell’amore. E lo fa molto bene.