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Vera Vigevani, «partigiana della memoria»»

Vera entra nella sala della chiesa valdese di piazza Cavour a Roma con la sedia a rotelle. È emozionata. Chiede dove sono i ragazzi, se sono molti. Non vede, Vera, riesce a percepire che la sala è gremita di ragazze e ragazzi arrivati per ascoltarla. Quando inizia il suo racconto, scende il silenzio totale, nell’aria c’è un clima di grande rispetto. Vera Vigevani Jarach, lo coglie.

Racconta della sua fuga da Milano nel 1938, appena varate le leggi razziali dal regime fascista. Racconta di suo nonno che è rimasto, perché diceva che non sarebbe successo niente, ed è morto ad Auschwitz. Di non essere più stata bambina, da quel viaggio in nave che la portava in Sudamerica. Aveva undici anni. Poi, racconta la sua seconda tragedia: la scomparsa di sua figlia sequestrata a diciotto anni dal regime militare che aveva appena preso il potere in Argentina, era il 1976.

Sua figlia Franca, l’hanno portata all’Esma, la scuola di formazione della marina militare, diventata carcere per migliaia di dissidenti. Vera porta sulla testa il fazzoletto bianco delle Madres de Plaza de Mayo, donne coraggiose che hanno sfidato il regime sanguinario di Jorge Videla per chiedere dove fossero finiti i loro figli. «Non c’è tomba per mio nonno morto ad Auschwitz e non c’è tomba per mia figlia uccisa in un volo della morte sul Rio de la Plata. Non c’è un luogo per piangere, se non da soli».

Ascoltarla – in un tempio carico di storia – è un onore e un gran privilegio. Il pastore Marco Fornerone ricorda che il quel luogo, dopo l’emanazione delle leggi razziali, sono state nascoste alcune famiglie di ebrei. Nel tempio, infatti, c’è un grande organo dietro il quale si accede, attraverso un passaggio segreto, in un ambiente stretto pensato per la manutenzione dell’organo e diventato rifugio per le persone perseguitate. Mentre parla con i ragazzi, Vera cita spesso i valdesi. Ha un legame antico con loro, una familiarità d’incontri, di memoria, d’impegno civile. Anche questo incontro con oltre cento ragazzi, infatti, era sostenuto dall’Otto per mille dell’Unione delle chieste metodiste e valdesi con le Associazioni Carta di Roma e l’Associazione 24 Marzo.

Manuela Vinay, responsabile Ottopermillevaldese, rileva: «L’invito di Vera a cercare il bene, farlo, condividerlo, diffonderlo, fare comunità è il nostro ideale: trasformare ciò che riceviamo come opportunità per le persone, consapevoli che d’indifferenza e di silenzio si muore».

Vera è partita dall’Argentina per parlare di memoria. È la sua missione, e lo dice con grande determinazione: «non mi piace la parola militante, troppo vicina alla parola militare, che ha a che fare con le armi e con la scomparsa di mia figlia. Preferisco definirmi una “partigiana della memoria”. Se non fossi partita per l’Argentina con la mia famiglia, sarei certo salita sulle montagne per combattere contro i fascisti. Ed è questo che voglio essere anche oggi».

Il Giorno della memoria, nella chiesa Valdese di piazza Cavour a Roma, diventa un evento che con Vera Vigevani attraversa la storia e mostra il significato della necessità di ricordare, affinché non si ripetano gli orrori del passato: persecuzione e sterminio. Vera Vigevani è un simbolo, un’icona. Una donna dolcissima, capace di piangere e di ridere fragorosamente.
Tante giovani presenti pongono domande: quando ha deciso di raccontare e condividere la sua storia? Che cos’è per lei la paura? Se oltre al sorriso e al suo umorismo abbia mai avuto momenti di sconforto. Vera risponde: «Certo, siamo esseri umani». E ancora, se ha mai incontrato lo sguardo dei persecutori. Vera dice di sì, «in Argentina, dove la memoria è materia di studio nel calendario scolastico, dove ancora si celebrano processi contro i militari», contro gli aguzzini del Plan Condor, il coordinamento dei regimi sudamericani di Cile, Argentina, Uruguay, Paraguay e Bolivia che dal 1974 hanno agito per cancellare il dissenso e sterminare gli oppositori. Solo in Argentina si contano 30.000 scomparsi, desaparecidos.

Al termine dell’incontro accanto a Vera si siede un uomo, Arturo Salerni: è il presidente di un’associazione che si chiama “i nuovi Desaparecidos” e si batte per la memoria degli scomparsi nel mare Mediterraneo, la frontiera più letale del pianeta che conta decine di migliaia di morti. Ci sono degli oggetti esposti in fondo alla sala, appartenuti ai naufraghi del 3 ottobre 2013 a Lampedusa. 368 morti. Vera li prende in mano, li vuole toccare perché non può vederli. Dice che l’acqua è dove riposa sua figlia. Questi oggetti per Vera hanno lo stesso valore della sua missione: «mantenere viva la memoria».

Foto di http://www.24marzo.it – http://www.24marzo.it