oboz_koncentracyjny_auschwitz-birkenau_

La soluzione finale e il Giorno della memoria

Era il 20 gennaio del 1942 quando in una villa sul lago di Wannsee vicino Berlino, si incontrarono quindici alti ufficiali nazisti per discutere la «soluzione finale della questione ebraica».

Il terribile in quell’occasione viene illustrato dal leader delle SS Reinhard Heydrich.

Il sistematico massacro, ideato per creare «un Reich libero da ebrei», prevedeva il trasporto in campi di concentramento e di sterminio dotati di camere a gas e di forni crematori. Sino al termine della guerra, in questi campi, furono uccisi più di sei milioni di ebrei.

Nelle prossime settimane il tema della «Memoria» sarà al centro del dibattito, sul fronte ebraico e su quello di tutta la società civile.

«(…) Un aspetto mi sembra rilevante – scrive nel terzo capitolo del volume L’era della post modernità (La Compagnia della stampa) lo storico sociale David Bidussa; considerazione più che mai attuali oggi -: «la convinzione che il Giorno della memoria riguardi solo la comunità ebraica e non sia un’occasione di riflessione pubblica sull’antisemitismo e sul razzismo è un argomento che si è più volte ripresentato nella discussione pubblica e che costituisce un segnale significativo dei “non detti” che sottostanno alla pratica del Giorno della memoria.

Significativamente, infatti, essi si ripresentano il 27 gennaio (dal 2001) per la celebrazione del primo Giorno della memoria.

In quell’occasione si stabiliscono e si definiscono le forme della riflessione pubblica, i luoghi del “pellegrinaggio”, la struttura delle manifestazioni e dei cortei (percorsi, ripartizione degli oratori, voci, scenografia e parole) che determinano nel giro di breve tempo la costruzione di una tradizione.

Quella spaccatura che si presenta nelle manifestazioni è confermata dalla tipologia della partecipazione e si manifesta soprattutto con le parole pronunciate nella discussione pubblica, durante le giornate di approfondimento nelle scuole e le mostre storiche che accompagnano i programmi di formazione scolastica ed extrascolastica».

Quando Bidussa scrive le sue riflessioni è l’anno il 2012; oggi lo scenario politico potrebbe dirsi cambiato.

«A questa prima caratteristica se ne aggiunge un’altra – scriveva allora Bidussa -. Nei luoghi pubblici la presenza della destra è sporadica, affidata al personaggio locale, spesso solo in qualità di amministratore (sindaco, presidente della Provincia o presidente della Regione), mentre il “popolo della destra” semplicemente diserta l’occasione.

L’opinione pubblica di destra non aderisce alle manifestazioni del 27 gennaio perché il Giorno della memoria è vissuto — tanto a destra come a sinistra — come una data che ripropone, in forma monotematica, lo schema culturale del 25 aprile.

E questo perché, per motivi diversi, sia la destra sia la sinistra — e in Italia anche il mondo cattolico — non fanno i conti con una parte consistente del proprio bagaglio culturale.

Una parte della destra non si misura con il razzismo che ha segnato profondamente la sua fisionomia politica e culturale nel Novecento; l’altra parte fa finta di non sapere che quando si parla di «zona grigia», di mondo dell’indifferenza, è di lei che si parla.

Entrambe pensano di risolvere il problema del genocidio ebraico ricorrendo alla retorica del “ben altro” ed evocando il Gulag.

La sinistra pensa che sia sufficiente includere l’antisemitismo nell’antifascismo per risolvere il problema, evitando cosi di affrontare le questioni che da più di un trentennio hanno minato alcune fondamenta essenziali del suo schema mentale in merito a eguaglianza e differenza (peraltro senza mettere nel conto un confronto serrato con il suo antisemitismo, che non è nato casualmente, ha più di un secolo di vita sia nelle file dei riformisti che in quelle degli intransigenti). […]».

E si legge ancora, «Nessuno in realtà mette in discussione il proprio profilo culturale e politico. E soprattutto nessuno percepisce il fatto che il proprio vocabolario non è capace di essere universalistico, da solo, se vuole riflettere su quell’evento. Tutto questo non toglie, tuttavia, che fuori da quelle piazze, e per certi aspetti in contrapposizione a esse, prevalgano il linguaggio e il gergo del revisionismo storico, che spesso ripropone consumati luoghi comuni, i quali fanno dell’Italia delle leggi razziali un paese senza responsabilità, spostando il discrimine all’8 settembre 1943, al momento della cosiddetta “morte della patria”, quando inizia la deportazione, evento che sarebbe avvenuto senza una responsabilità italiana, appunto, quindi interamente attribuibile al tedesco occupante e perciò “estraneo” allo spirito italiano».

Anche oggi, a quattordici anni di distanza dall’uscita del libro, c’è molta strada da percorrere. Inoltre, i testimoni diretti sono sempre di meno, cosa sarà dopo di loro?

È sempre Bidussa a indicare una strada percorribile nel libro «Dopo l’ultimo testimone» (Einaudi, 132 pagine, 10 euro) uscito nel 2009. Si legge su Moked: «[…] Nell’atto di testimonianza all’epoca della sua visualizzazione ciò che prevale è l’estetica. Su quest’aspetto ha posto l’accento Annette Wieviorka quando ha sottolineato come il ruolo della testimonianza in relazione alle vicende legate al genocidio ebraico abbia subito lente trasformazioni nel corso del tempo.

Dapprima il testimone si colloca nella posizione di depositano della storia “a futura memoria”. Non si tratta solo di raccontare la resistenza o la cronaca della spoliazione dei ghetti e poi della loro distruzione, ma anche di descrivere i conflitti interni al mondo delle vittime.

Ci vorranno decenni perché lentamente si prenda coscienza delle articolazioni della zona grigia, ma il fatto che oggi siamo in grado di vedere la dinamica della distruzione degli ebrei d’Europa è anche dovuto all’opera dei memorialisti che nello stesso momento in cui avveniva lo sterminio, tra il 1942 e il 1944, hanno cercato di costruire a “futura memoria” anche la propria autodifesa.

Dunque, il testimone di primo tipo è un testimone oculare, e di solito la sua testimonianza è un testo scritto, perché egli è stato fisicamente travolto con il crollo del mondo stesso che sta descrivendo.

C’è poi un secondo tipo di testimone, secondo Wieviorka, rappresentato dal sopravvissuto. Si tratta di un testimone oculare coinvolto nel processo di distruzione a cui però è sopravvissuto. Questo secondo tipo di testimone ha essenzialmente i problemi del reinserimento e della dissimulazione.

Quei temi che caratterizzano il testimone del primo tipo — ovvero la consapevolezza della distruzione collettiva e del “crollo di un mondo” —, emergono successivamente. Solo coi tempo i temi e i segni del disadattamento riaffioreranno e saranno le storie e le riflessioni di Jean Améry, Primo Levi, Paul Celan».

Ma perché questo malessere insorga devono operarsi una separazione e una contrapposizione sul problema della testimonianza e questo è «il terzo livello o la terza figura del testimone. Questa volta il testimone non è più una voce del passato, ma è contemporaneamente la voce di un’esperienza vissuta — e dunque finita — e la narrazione di una “nuova vita”. E ciò che Wieviorka denomina con il termine di “americanizzazione” e che a suo giudizio include un doppio passaggio: un sistema della comunicazione in cui la testimonianza non è più un processo selettivo ma accumulativo e l’astoricità della narrazione».

Dunque che cosa accade della testimonianza quando scompaiono i testimoni diretti? Restano dei racconti e la capacità o la volontà di attivarli da parte di un pubblico che nella sua maggioranza è costituito da spettatori. Rimangono le domande, la curiosità, la capacità di osservare, di riflettere, di rappresentare.

«Rimane il “mestiere di storico”, fatto di scavo nei documenti per ricostruire nella forma più dettagliata la scena, sapendo che comunque permane un margine di non detto e che nessun documento fornirà una versione esaustiva e definitiva di com’è andata». […]

«In breve le voci testimoniali sono una traccia, un documento che dobbiamo prendere in carico, ma che dobbiamo rendere autonomo dalla loro metamorfosi in quanto prove. Per farlo occorre che contemporaneamente si avvii una nuova stagione di riflessione e di pratica sulla e della storia in grado di uscire tanto dal sensazionalismo come dall’”uso politico del passato”.

E l’idea della riflessione sulla storia passata come “lezioni da trarre”, una mentalità che ha connotato sinistra e destra, e che, comunque, come ha sottolineato lo storico Langer, visti gli effetti in Rwanda, in Darfur e nella ex Iugoslavia, non sembra essere stata particolarmente efficace, anzi pare abbia insegnato come disumanizzare l’avversario. Quel racconto, dunque, non ha impedito che complessivamente la scena si ripetesse».

[…]

«Niente è già scritto. Dipenderà come si costruisce una riflessione civile sul rapporto tra storia e memoria. Perché ciò avvenga, occorre che maturi una diversa consapevolezza del loro mestiere da parte degli storici e un modo consapevole e non spettacolaristico di raccontare.

Ciò che caratterizza la storiografia è l’essere una disciplina scientificamente fondata, consapevole dei propri limiti, pronta a riconsiderare l’intero dossier della propria ricerca quando altre fonti si presentino e rimettano in discussione le conclusioni; inoltre in grado di analizzare fatti e documenti anche con nuove metodologie.

Da questo punto di vista il problema, come pure in Schindler’s List (il film di Steven Spelberg, ndr), non è solo raccontare tutta la storia, ma piuttosto come anche la sua
rappresentazione risponda a regole e suggestioni, e come ciò che viene comunicato non sia il passato soltanto, ma il modo in cui ciascuno se lo porti dietro e lo viva interiormente, lo risistemi e lo comunichi.

Per questo Schindler’s List, pur non costituendo un manuale per il XXI secolo di ciò che è accaduto nella metà del XX, è comunque un ottimo esempio di come oggi si parli di quel passato e si rappresenti il modo in cui è stato «archiviato» nella nostra mente.

C’è un senso comune che delega alla storia il compito di raccontare la verità. Non mi fiderei mai di una disciplina così potente e di professionisti detentori del mandato di scrivere l’ultima parola in merito a “come sono andate le cose del passato”.

Solo la verità di Stato viene presentata come l’ultima parola. Di solito la produzione storiografica che la omaggia, su qualsiasi supporto venga proposta e consumata, non ha aiutato a far crescere uomini e donne liberi.[…]».