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Mihajlovic uomo di sport, non guerriero

Quando scompare una persona celebre, molti cercano di interpretarne la vita e la carriera, tirandola di qua o di là; quando morì Fabrizio De André (1999) si moltiplicarono le “visioni” del De André blasfemo e mangiapreti, ma anche, a modo suo, religioso; del cantautore colto ma anche popolare; romantico ma anche sarcastico. Insomma, calzava a pennello il titolo di una sua canzone, non delle più famose: Se ti tagliassero a pezzetti… (1981). Ognuno si ritagliava da lui il “pezzetto” più confacente.

Diversa sorte è toccata a Sinisa Mihajlovic, calciatore della Stella Rossa Belgrado, poi di varie squadre italiane, e infine allenatore, sempre in Italia. Ammalatosi di leucemia nel 2019, ha fatto di tutto per contrastare la malattia, tornando a lavorare, dapprima a distanza e poi in panchina con il suo Bologna. Poi, la ricaduta, alla quale anche uno spirito indomito come il suo ha dovuto cedere. Unanime il cordoglio, ma un po’ troppo unanime la facilità con cui abbiamo letto un profluvio di descrizioni dell’uomo di sport come “guerriero” – perché ha lottato eroicamente – questo è verissimo – contro la malattia. 

Certo, buona parte di questa enfasi è stata espressa, con le migliori intenzioni, dai gruppi di tifosi. Il personaggio era duro, burbero, ma onesto e leale nei rapporti, e si era conquistato molte simpatie, non solo fra gli sportivi. Ma dalle titolazioni dei giornali mi sarei aspettato qualche sfumatura in più, proprio a proposito dell’eroismo e dello spirito “guerriero”. Quando Mihajlovic si ammalò ricordo che qualcuno sollevò l’allarme: attenzione a definire “eroe” chi lotta contro la malattia – e inizialmente sembra anche superarla. Perché non tutti coloro che si ammalano hanno la stessa forza: c’è il rischio che qualcuno si senta inadeguato, e si “lasci andare” ritenendosi non all’altezza di affrontare una prova così grave. L’esempio del lottatore, insomma, è utile per incoraggiare chi è altrettanto lottatore, ma rischia di nuocere ai più fragili.

Ma poi quest’uomo aveva, nella vita pubblica e nel privato soprattutto una gran voglia di vivere, di lavorare, di amare: tutte cose che ha fatto, e che avrebbe voluto continuare a fare. Aveva un avversario, che poi ha prevalso, e a questo avversario si è opposto da uomo: da sportivo, da professionista, da marito, padre, nonno, amico, collega di tanti. La definizione di guerriero andrebbe lasciata alle occasioni in cui purtroppo è pertinente: e nel mondo sono tante. Anche per il contrasto alla pandemia ci si è espressi in termini guerreschi: non va bene.

Per Sinisa Mihajlovic c’era addirittura il tragico precedente della guerra nella ex-Jugoslavia. Serbo nato in Croazia, ha vissuto da ragazzo, come tanti, sotto i bombardamenti. Ha fatto, a proposito della guerra, affermazioni che hanno suscitato clamore e anche scandalo, su cui poi è ritornato, ma con il pregio di una grande onestà: mettendoci – come si dice – la faccia. Gran parlatore, anche umorista e spiritoso secondo i canoni che piacciono nel nostro paese, non si è mai sottratto a interviste anche su temi extracalcistici. Ma sono convinto che le ferite peggiori, quelle che ti entrano con la paura delle bombe, le abbia sempre lasciate riposte in un angolo della memoria e della coscienza, parlandone forse solo con i familiari. Quando gli chiesero se non aveva paura che il presidente della squadra che allenava vari anni fa lo sollevasse dall’incarico, rispose appunto che, avendo vissuto i bombardamenti, non poteva aver paura di un esonero. Né di una partita difficile.

Non era presunzione o arroganza: era la parte visibile di un dramma che ragazzi e ragazze di quella che era la Jugoslavia si sono portati (e si tengono ancora) dentro, con dolore, sopportazione, rancore: ognuno è diverso. Ma questo non significa obbligatoriamente “spirito guerriero”. In campo (e in panchina) sì, lo spirito era quello del lottatore, ma questo è lo spirito di un professionista di carattere; lo sport è una grande e meravigliosa finzione, che mette di fronte due squadre (o dei singoli) a sfidare gli avversari e sé stessi (c’è chi vince una discesa libera gareggiando con una mano fratturata). Questo dura un periodo limitato, il tempo della partita; secondo le regole stabilite; poi il mondo torna quello che è.

La voglia di vivere è in alcuni casi un gesto eroico, ma consiste soprattutto nell’essere uomini e donne. Come dicevano i sostenitori dell’obiezione di coscienza, di cui parliamo in queste settimane a 50 anni dall’approvazione della legge 772/1972, la difesa della patria è un dovere di tutti, ma si può compiere in modi diversi: non necessariamente in divisa e con le armi; e difendendo la patria non da supposti attacchi stranieri, ma dai problemi interiori, dal dissenso idrogeologico alle disuguaglianze sociali. Non serve spirito guerriero, servono uomini e donne che con tenacia si danno degli scopi e lavorano per realizzarli, e che sanno circondarsi di amicizie, affetti, collaborazioni, unità d’intenti. Magari, per alcuni e alcune di loro, con il sostegno della fede.

 

Foto di  Luca Zennaro / ANSA – Vanni Zagnoli, La Samp in Europa sfida il suo passato, su ilgiornale.it, 30 luglio 2015., Pubblico dominio,