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Berlino cambia i nomi alle strade ma non cessano le mire coloniali

 

Gli attivisti che da decenni si battono affinché la Germania affronti il suo passato coloniale hanno celebrato venerdì la ridenominazione di una piazza e di una strada nel nord-est di Berlino in omaggio a figure che hanno resistito al dominio forzato in Africa.

Manga Bell Platz, nel cosiddetto Quartiere africano di Berlino, è stata ribattezzata in questo modo in memoria di Rudolf ed Emily Duala Manga Bell, un re e una regina di Duala in Camerun che hanno combattuto contro il colonialismo tedesco. Rudolf Duala Manga Bell, che aveva studiato in Germania, fu giustiziato insieme ad altre 100 persone dalle autorità tedesche nell’agosto 1914 dopo un processo farsa.

La piazza, parte centrale del Quartiere Africano, fino a venerdì era conosciuta come Nachtigalplatz dal 1910, dal nome di Gustav Nachtigal, commissario dell’Impero tedesco per l’Africa occidentale che ebbe un ruolo chiave nella colonizzazione tedesca di Togo, Camerun e Namibia negli anni Settanta del XIX secolo.

Nelle vicinanze, Lüderitz Strasse, che prende il nome dal colonialista Adolf Lüderitz, un commerciante di Brema un tempo celebrato come il fondatore della colonia tedesca dell’Africa sud-occidentale – l’attuale Namibia – ha assunto il nuovo nome di Cornelius Fredericks Strasse. Frederiks era un combattente della resistenza del popolo Nama che fu imprigionato in un campo di concentramento a Shark Island insieme a un gruppo di quasi 1.800 persone nel 1906. Morì il 16 febbraio 1907 per malnutrizione e ipotermia. Alcune delle vittime tra quelle detenute con lui furono decapitate e i loro crani furono inviati in Germania affinché i cosiddetti scienziati razziali effettuassero ricerche antropologiche su di loro.

In una cerimonia alla quale hanno partecipato gli ambasciatori del Camerun e della Namibia, nonché l’attuale re Eboumbou di Douala e sua moglie, Jean-Pierre Félix-Eyoum, un pronipote di Manga Bell, ha reso omaggio ai suoi parenti e agli altri combattenti della resistenza, tra cui Emily e molte altre donne.

«Questo è un grande giorno», ha detto l’insegnante in pensione, che vive a Monaco, alla folla riunita in un angolo della piazza, mentre i residenti guardavano dai loro balconi.

«Con questa ridenominazione, Berlino riconosce la sua responsabilità storica», ha aggiunto. Ha reso omaggio agli storici, agli scrittori, ai politici e alle centinaia di attivisti del movimento «decoloniale» che da decenni chiedono il riconoscimento dell’epoca coloniale della Germania e la ridenominazione della strada, della piazza e di molti altri luoghi simili in Germania.

«Spero che i nomi di tutti i colonialisti ancora presenti sui monumenti e sulle strade non solo in Germania, ma in tutto il mondo, un giorno spariranno».

L’Impero tedesco si avvicinò alla colonizzazione negli anni ’70 del XIX secolo, relativamente tardi rispetto alla maggior parte delle altre potenze, per poi perdere il controllo della maggior parte dei territori all’inizio della prima guerra mondiale nel 1914. L’ambizione di riassicurarsi i territori perduti durò fino agli anni ’40, ma non guadagnò molto terreno.

La Repubblica  tedesca è considerata responsabile di una delle più vergognose atrocità coloniali mai commesse, il genocidio tra il 1904 e il 1908 di circa 60.000-100.000 indigeni Herero e Nama.

Molti dei colonizzatori hanno cercato di vendere il loro progetto come una missione per portare il cristianesimo e la civiltà nelle regioni africane.

Alcuni giorni prima, martedì scorso, Sevim Dagdelen, deputato del Partito della Sinistra, ha organizzato a Berlino una conferenza stampa con i rappresentanti dei popoli Ovaherero e Nama della Namibia. Nessun altro parlamentare ha accettato l’invito e anche la stampa ha mantenuto un profilo basso. Gli ospiti erano Mutjinde Katjiua, capo dell’Autorità Tradizionale Ovaherero, Sima Luipert dell’Associazione dei Leader Tradizionali Nama, Joyce Muzengua del Movimento dei Popoli Senza Terra e l’avvocata Karina Theurer, specializzata in critica giuridica decoloniale.

Erano tutti uniti nel rifiuto della cosiddetta Dichiarazione congiunta firmata l’anno scorso tra Berlino e Windhoek. Insieme a Dagdelen, che si recherà in Namibia la prossima settimana, stanno lavorando per far ripartire il processo negoziale. Il governo tedesco ha riconosciuto nella dichiarazione che «le atrocità atroci commesse durante le fasi della guerra coloniale (nell’Africa tedesca del Sud-Ovest) sono culminate in eventi che sarebbero descritti come genocidio dalla prospettiva odierna». La posizione tedesca, tuttavia, secondo Katjiua, è che gli Ovaherero e i Nama perseguitati non erano all’epoca sotto la protezione del diritto internazionale perché questo non si applicava alle “tribù selvagge” – in altre parole, non c’era genocidio per loro. Secondo le sensazioni personali dei discendenti di oggi, questo atteggiamento razzista è cambiato poco.

Un’ulteriore prova di ciò, come ha sottolineato Theurer: I “negoziati” sono stati portati avanti dall'”inviato speciale per la Namibia” del precedente governo, Ruprecht Polenz (Cdu) – di cui Luipert ha denunciato «l’atteggiamento razzista» – per non avere coinvolto le popolazioni interessante, avendo preferito di dialogare solo con il governo centrale, il quale da decenni trattiene i trasferimenti economici previsti per le popolazioni indigene. 

Nel complesso, si tratta di una messa in scena con cui Berlino cerca di evitare un effettivo risarcimento per i crimini coloniali commessi con la paura anche di avviare un effetto a catena che potrebbe coinvolgere altre nazioni africane e i loro vecchi dominatori europei.

La segregazione razziale in Namibia è ancora plasticamente visibile, soprattutto nella capitale Windhoek, dove la distanza abissale fra le ville coloniali del 6-7% della popolazione di origine tedesca e le immense distese di baracche del 90% della restante popolazione rappresentano non solo un pugno nello stomaco, ma l’esempio di quanta strada ci sia ancora da compiere nel continente per un reale superamento di logiche che ora sono per lo più economiche ma che mantengono in uno stato di perenne indigenza e impossibilità di sviluppo la pressoché totalità di una nazione.

Secondo l’accordo dello scorso anno, la Germania prevede di pagare alla Namibia 1,1 miliardi di euro in aiuti alla ricostruzione nei prossimi 30 anni. Maas ha parlato di un «gesto di riconoscimento della sofferenza incommensurabile che è stata inflitta alle vittime». Un documento è stato provvisoriamente firmato dai negoziatori di entrambi i paesi e sarà presto siglato dai ministri degli esteri.

Non si tratterà però di risarcimenti individuali come richiesto dalle associazioni che rappresentano gli Herero e i Nama, ma di sovvenzioni che lo Stato namibiano gestirà per lo sviluppo. Poco cambia da questo punto di vista perché a partire dal 1990, data dell’indipendenza namibiana dal Sud Africa, la Germania ha riversato milioni di marchi in progetti, attenta a ottenere al contempo il controllo delle materie prime e dei relativi appalti di estrazione.

Buon ultimo in ordine di tempo, un viaggio la scorsa settimana del vice premier tedesco e ministro dell’Economia Robert Habeck a Windhoek alla ricerca di fonti di energia per approvvigionare la Germania (enormi sono le fonti di gas naturale in Namibia). Le promesse come al solito generiche di ricadute e benefici anche per la popolazione locale, appaiono l’ennesima beffa coloniale di chi cambia i nomi alle vie ma non cambia l’approccio nei confronti dei popoli africani.

Nel 2017 con una confessione di colpa e una richiesta di perdono la Chiesa evangelica in Germania (Ekd) si è rivolta ai discendenti delle vittime di ciò che la maggior parte degli storici riferisce come il primo genocidio del XX secolo, quello a danno delle popolazioni indigene della Namibia da parte delle forze occupanti tedesche, che ha preso avvio a partire dal 1904. Nel documento prodotto dal consiglio dell’Ekd, la chiesa protestante affronta le proprie responsabilità storiche davanti alle atrocità commesse nel paese africano fra il 1884 e il 1915 dalla potenza occupante, la Germania.

Per quanto è noto fino ad oggi dalle fonti, si legge nel testo, è da escludere totalmente un ruolo attivo diretto da parte dei pastori luterani tedeschi inviati in Africa sud occidentale nelle uccisioni di massa, da molti considerate le prove generali dello sterminio nazista di pochi decenni dopo; tuttavia, attraverso la giustificazione teologica del potere imperiale e del dominio coloniale, condita da un profondo razzismo, essi hanno in qualche maniera preparato il terreno per la morte di migliaia di persone di diversi gruppi etnici. Il testo a tal proposito afferma: «Questo è un grande peccato che non può essere giustificato».