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Il diritto/dovere di votare

 

Domenica 25 settembre l’Italia andrà a votare, con scarso entusiasmo: cerchiamo di capire perché, andando un po’ al di là delle spiegazioni interne alla logica della macchina politica. Infatti delusione, disaffezione, scandali, corruzione: sono parole che da anni inondano le prime pagine e i tg, i talk show e i social media, al  punto di non significare più molto.

Un primo elemento salta banalmente agli occhi: non abbiamo mai votato così frequentemente. Se penso alla generazione che ha preceduto la mia, quella che dopo il fascismo e dopo l’ultimo conflitto mondiale, ha potuto godere dell’accesso universale al voto, vedo che nel 1946 ci furono le prime elezioni amministrative, estese anche alle donne, a cui fu dato diritto di voto al referendum che monarchia/repubblica. Così fu, da allora in avanti, a partire dalle elezioni per la prima legislatura (1948). Si votava, però, per un numero limitato di occasioni. Certo esistevano le consultazioni locali, ma solo nel 1970 si cominciò a votare per le Regioni a statuto ordinario, e solo nel 1974 ebbe luogo il primo referendum abrogativo – ancora più tardi fu la volta dei referendum confermativi. Insomma, l’impressione è che, nei decenni ’50-’60 e ancora tutti gli anni ’70, intorno al ruolo dei “partiti/chiesa” che cercavano il consenso secondo logiche di schieramento molto marcato, per gli italiani e le italiane, usciti dalla guerra e dalla dittatura, la partecipazione alle elezioni era un diritto/dovere interiorizzato come una realizzazione di sé, un compito alto e un privilegio a cui prepararsi con i tempi giusti e la giusta disposizione d’animo.. Lo ricordino quanti guardano con sufficienza a questa scadenza. Il voto è stato una conquista che abbiamo ricevuto da chi si è sacrificato: altri popoli non hanno questo diritto; altri ancora (vedi il recente pronunciamento dell’Unione europea sull’Ungheria) vedono la pratica formale della democrazia svilire in forme di autoritarismo.

Oltre a queto dato “umano”, c’è anche un dato psicologico: gli ultimi decenni sono stati caratterizzati dall’emergere, positivo e creativo, della soggettività. Che però porta con sé il rischio del soggettivismo, fino a degenerare in individualismo. La società deve certo promuovere i doni individuali e la valorizzazione della personalità, ma in tempi in cui la politica era “forte”, la rappresentanza aveva il suo senso; ma in tempi in cui la coesione è cementata più dalle pratiche culturali e individuali che dalle scelte di opinione, si sta perdendo sempre più il senso della rappresentanza. Se ciò che ha più valore è quello che io ho dentro di me (cultura, talenti, potenzialità spirito di iniziativa) e che esprimo nel lavoro e nella realizzazione di me, a che cosa mai mi serve un mio rappresentante? Tendenza pericolosa: l’abbassamento del livello politico è legato alle contingenze, ma questi sono fenomeni di portata antropologica, endemici e destinati a durare. Non è questione di destra o sinistra, né di strati sociali, tutti e tutte ne siamo convolti e tentate.

Ciò detto, è la vita stessa delle chiese evangeliche a richiamarci al nostro diritto/dovere: «molte persone non votano perché non hanno cittadinanza», ci dice l’atto approvato dal recente Sinodo valdese e metodista, che ha espresso «la volontà di favorire un allargamento del diritto di cittadinanza». La medesima mozione auspica che il tono della dialettica politica rifiuti la radicalizzazione: essa infatti «non è radicalità, ma è rifiuto del dialogo e delle posizioni dell’altro, visto solo come un nemico». Vale la pena di richiamare l’intervento a un dibattito, in cui Vittorio Foa, politico e sindacalista, ebreo e socialista, diceva a un collega senatore dell’estrema destra: nell’ultima guerra ha vinto la “mia” parte, e tu puoi sedere in Senato come me; se avesse vinto la “tua” parte, io sarei ancora in prigione. Un noto commentatore politico ha scritto in estate su un autorevole quotidiano che bisognerebbe lasciarsi alle spalle la vecchia contrapposizione tra fascismo e antifascismo. Problema mal posto. L’alternativa è, caso mai, fra fascismo e democrazia.

Pochi giorni fa la Diaconia valdese ha reso note, in conferenza stampa, trenta domande che rivolge idealmente ai candidati e candidate di tutti i partiti: derivano dall’attenzione verso “gli ultimi”, e trovano la loro ragion d’essere da un lato nello spirito evangelico che anima le nostre chiese e il loro lavoro nella società; e dall’altro nella Costituzione, riferimento non immutabile, ma fin qui modificato, solo in piccole parti, con un certo consenso. L’intreccio di leggi elettorali maldestre potrebbe portare ipotetiche maggioranze a volerne modificazioni radicali, gradite a una sola parte di cittadinanza. Non sarebbe una bella svolta, neanche se formalmente legittima. La pratica democratica è piuttosto frutto di lavoro lungo, costante, a volte noioso e frustrante, ma partecipativo. L’atto votato dal Sinodo ce lo insegna, prima che per le sue parole, per il fatto stesso di essere stato votato, secondo quell’esercizio partecipativo che la Chiesa valdese ha ricordato a fine marzo, al momento dell’adesione al registro del Terzo settore: chi amministra le strutture della chiesa lo fa gratuitamente, su mandato elettivo, e per una durata limitata nel tempo. Sembrano dei vincoli, ma esprimono la gioia e l’orgoglio di partecipare al “bene della città”.