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Le migrazioni non sono giuste o sbagliate: sono

C’è un villaggio in Gambia, dove non sanno delle elezioni italiane. Si chiama Kaur. È a qualche ora di macchina dalla capitale, Banjul. È un piccolo centro di periferia, uno come tanti, con una scuola elementare che ogni mattina si riempie di studenti. Là non mancano, i bambini. E così il preside, Mohamed Lamin Dabor, ha deciso di dare vita all’orto della scuola. Anche la terra, non manca. Non tutti però sanno farla fruttare. Prima, durante e dopo la scuola, c’è qualcuno che va nell’orto e si prende cura delle verdure e della frutta. Questo, non solo per insegnare come si coltiva, ma anche per permettere agli studenti di portare a casa qualcosa da mangiare. Eh, sì. Perché a Kaur, molti fanno la fame… 

Ho passato qualche giorno in quella scuola, con Alì Sohna, gambiano anche lui. Emigrato in Italia una decina di anni fa. Aveva solo 13 anni quando un mattino il suo fratello maggiore lo ha svegliato con un imperioso “dem rek”: si parte! C’era la guerra civile, problemi in famiglia e soprattutto nessuna prospettiva di miglioramento. Hanno attraversato il deserto in pullman, camion, pick up, a piedi. La madre si è fermata in Niger, non avevano abbastanza soldi per viaggiare in tre. Alì e suo fratello hanno proseguito il viaggio, sono finiti in prigione, sono stati picchiati, torturati, hanno rischiato la vita più volte. In qualche modo sono riusciti ad arrivare in Libia dove poi, dopo mesi di sfruttamento sottopagato, sono riusciti a pagare il biglietto per salire su una nave sovraccarica di uomini donne e bambini. Quella nave è affondata, le vittime di quel tragico naufragio sono state circa cinquecento. Nessuno sa esattamente quante… 

Il fratello di Alì è affogato. Lui, miracolosamente, si è salvato. Arrivato in Italia, è rimasto muto per settimane. Fino a quando è stato invitato a recitare in una compagnia di teatro di strada. Da allora ha riacquistato la voce e la voglia di narrare quelle tragiche vicende. Anche là, a Kaur, in quella scuola, dove ha rappresentato uno spettacolo che raccontava la sua migrazione. Non era per dire “non fatelo”, ma per diffondere coscienza e consapevolezza. Perché c’è ancora chi non sa dei pericoli a cui va incontro, nelle migrazioni forzate. 

Ma c’è anche chi sa tutto, e parte lo stesso. Come Eliman, che vive in Senegal e cerca di guadagnarsi da vivere a Kayar, una spiaggia di pescatori, dove va a caccia di turisti per accompagnarli nella visita. In teoria è un buon lavoro. Le mance dei turisti sono ricche, per le sue tasche. In pratica i visitatori sono pochi, sempre meno in questi anni di Covid e guerre, in un mondo che si chiude sempre più. Eliman non arriva a fine mese, non riesce a garantire un pasto alla sua famiglia, ai suoi bambini. E così per tre volte ha tentato di fuggire, pardon, di emigrare. Saltando sui barconi, le piroghe dei pescatori, direzione: Spagna, isola di Tenerife. Non ce l’ha mai fatta, lo hanno sempre rispedito indietro. L’ultima volta ha passato giorni e giorni in balia del mare, ha visto morire di sete diversi suoi compagni di viaggio e ha rischiato di non farcela anche lui. Eppure, vuole provarci ancora. È disposto a tutto, pur di garantire il cibo ai suoi figli.

E allora torniamo a quella scuola, a quel preside illuminato e al suo orto, che dovrebbe garantire un futuro agli studenti e un presente alle loro famiglie. È una goccia nel mare di necessità a cui la sua gente deve far fronte ogni giorno. Una goccia, che però ha fermato qualcuno, dal prendere la via delle migrazioni forzate. Una goccia come lo spettacolo di Alì, che poche settimane dopo la rappresentazione ha ricevuto una mail di ringraziamento dagli studenti di una classe intera. Tre loro compagni, assenti il giorno dello spettacolo, sono partiti con le loro famiglie. Il mare grosso ha ingoiato le piroghe dei pescatori su cui navigavano, e sono morti tutti. Fra quanti hanno scritto quel messaggio, c’è anche chi era stato invitato a partire, ma ha detto di no. È veramente il caso di dire che Alì e la sua storia, hanno fatto scuola. 

Ma non basta. Il preside, sconsolato, racconta che è partito anche un insegnante. Un ragazzo molto bravo, laureato a pieni voti, con ottime prospettive di carriera. Ma in un Paese dove gli insegnanti guadagnano meno di 200 euro al mese, e con quei soldi non riescono nemmeno a sfamarsi, come si fa a non sognare un posto migliore?

In Gambia, non sanno delle elezioni italiane. Non lo sanno in Gambia, come in Senegal, e in tanti altri Paesi, africani e non. Però tante, tantissime persone continuano ad avere fame, troppi genitori non riescono a garantire l’essenziale ai loro figli. E così decidono di partire. Le cosiddette migrazioni forzate, non lasciano scelta. Le migrazioni non sono giuste o sbagliate: sono. Hanno caratterizzato la storia dell’umanità fin dalle origini, e ci accompagneranno finché un essere umano abiterà questo pianeta. E noi, che cosa vogliamo fare: fermare l’acqua con le mani?