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Evitiamo che i film diventino cibo da fast food

Il primo festival del cinema al mondo mantiene con ostinazione il suo antico nome, cioè “Mostra internazionale d’arte cinematografica”. Solo in Italia ci sono oltre 70 festival di cinema l’anno, e l’idea alla base è spesso che si tratti di una kermesse, di una festa, di un momento di svago e di stacco dal quotidiano. In realtà, un evento come Venezia è piuttosto una Messe, cioè una fiera, un momento in cui immergersi nel quotidiano, osservando le tendenze artistiche contemporanee, cioè cosa autori e autrici hanno da dire sull’oggi. Allora è bene che si dica “Mostra” e non festival, e che la cornice sia quella ampia della Biennale di Venezia (fondata nel 1895), che comprende anche altre arti.

La 79a Mostra conclusasi il 10 settembre è stata anche l’edizione del novantennale. Fondata nel 1932 dal gerarca Giuseppe Volpi (fatto conte per aver represso i ribelli in Tripolitania), essa nacque nell’ambiguità. Da una parte fu un’operazione di propaganda del regime, dall’altra fu, in effetti, un luogo di convivenza di opere in contrasto tra loro: René Clair, Leni Riefenstahl, Ernst Lubitsch, Aleksandr Dovženko e Mario Camerini vi portarono i loro film. Quelle opere erano lo specchio del tempo e il conflitto tra le visioni del mondo ivi espresse preconizzava la Seconda Guerra mondiale, che sarebbe scoppiata sette anni dopo.

Ecco, con questa consapevolezza si partecipa alla Mostra di Venezia che, con Cannes e Berlino, è uno degli specchi più efficaci della realtà a disposizione. 

Che cosa ha mostrato lo specchio di quest’anno? In primo luogo, molti film emanavano una certa claustrofobia, tendenza evidente tra le opere visualizzate dalla Giuria «Interfilm», di cui ho fatto parte, a partire dal film premiato, The Whale di Darren Aronofsky, che parla di un uomo «confinato nel corpo, nella casa e nella vita» (dalla motivazione del premio). Senza parlare di virus, mascherine e teorie del complotto (anche se Rumore bianco di Noah Baumbach lo fa con un film ambientato nell’America reaganiana), il cinema coglie un aspetto importante di questi due anni di pandemia. Per restare nell’ambito Covid, segnalo The Son di Florian Zeller, sul tabù del disagio mentale adolescenziale.

In secondo luogo, sembra essere sparita la figura del produttore. Certo, se ci sono film, c’è chi li finanzia, ma si potrebbe scrivere un libro “alla Recalcati” sull’assenza del “produttore come padre”. Gli autori non sembrano infatti avere limiti, se non economici. Risolto il problema dei soldi, possono fare i film che vogliono, spesso troppo lunghi e poco maturi. Non vorrei banalizzare la questione del finanziamento di un film, ma porre l’attenzione sul fatto che le opere migliorano grazie al conflitto, un po’ come in un sano rapporto genitore-figlio, dove, affinché il figlio riesca a esprimersi al meglio, il genitore ricopre un cruciale ruolo di incoraggiamento e contrasto.

Questa tendenza, in cui il regista non riesce a confezionare al meglio il proprio film, è visibile soprattutto nelle produzioni Netflix, ma non solo. Presentata come emancipazione definitiva del regista come autore finale e totale dell’opera, si tratta invece di una degradazione dei film a prodotto esclusivamente commerciale. In altre parole, le case di produzione hanno bisogno di titoli da mettere a catalogo, meglio se accompagnati da nomi prestigiosi. Allora non è importante se il film viene bene, se un film mediocre può diventare un capolavoro con i dovuti accorgimenti: l’importante è la quantità di titoli che si offrono ai clienti. Chi può risolvere questo problema prima che i film (soprattutto in streaming) si trasformino definitivamente in hamburger da fast food?

Ultima nota: alla Mostra si notava una certa divergenza tra i voti dati ai film da parte della critica italiana e da quella straniera. Grosso modo, gli italiani raramente bocciano un film italiano, mentre spesso bollano i film anglosassoni come “americanate hollywoodiane”; d’altro canto, spesso gli stranieri fanno fatica a capire i film italiani (cioè, i film italiani non riescono a parlare a un pubblico straniero). Quando un italiano piace all’estero (pensiamo a Luca Guadagnino), alcuni critici italiani ne ridicolizzano il successo. La suddivisione nazionalista della critica è problematica e, forse, nasconde altri meccanismi: lo sfogo di Gianni Amelio nei confronti di un critico che a suo tempo bocciò Hammamet ha fatto scalpore probabilmente perché fatto in pubblico; chissà che cosa succede in privato, tra autori, distribuzione e stampa, in un paese dove partiti e potenti si inseriscono promiscuamente nei settori produttivi.

A questo si aggiunge, forse, un ulteriore problema che ci riguarda direttamente: la difficoltà ad analizzare e recepire elementi spirituali e teologici nei film da parte di molta critica italiana. Come Giuria Interfilm ci stupiva che i film che ci avevano colpito di più dal punto di vista teologico erano bollati come banali, superficiali e piatti. Forse per questo chi ritiene che uno sguardo spirituale e uno sguardo laico possano convivere deve continuare a vedere i film e a raccontare che cosa ne ha colto.