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«La speranza è la fede coniugata al futuro»

Daniele Bouchard – Lino Gabbiano*

«Poiché, ecco, io creo nuovi cieli e una nuova terra; non ci si ricorderà più delle cose di prima; esse non torneranno più in memoria.Gioite, sì, esultate in eterno per quanto io sto per creare; poiché, ecco, io creo Gerusalemme per il gaudio, e il suo popolo per la gioia. Io esulterò a motivo di Gerusalemme e gioirò del mio popolo; là non si udranno più voci di pianto né grida d’angoscia; non ci sarà più, in avvenire, bimbo nato per pochi giorni, né vecchio che non compia il numero dei suoi anni; chi morirà a cent’anni morirà giovane e il peccatore sarà colpito dalla maledizione a cent’anni. Essi costruiranno case e le abiteranno; pianteranno vigne e ne mangeranno il frutto. Non costruiranno più perché un altro abiti, non pianteranno più perché un altro mangi; poiché i giorni del mio popolo saranno come i giorni degli alberi; i miei eletti godranno a lungo l’opera delle loro mani. Non si affaticheranno invano, non avranno più figli per vederli morire all’improvviso; poiché saranno la discendenza dei benedetti del SIGNORE e i loro rampolli staranno con essi. Avverrà che, prima che m’invochino, io risponderò; parleranno ancora, che già li avrò esauditi. Il lupo e l’agnello pascoleranno assieme, il leone mangerà il foraggio come il bue, e il serpente si nutrirà di polvere. Non si farà né male né danno su tutto il mio monte santo», dice il SIGNORE» (Isaia 65, 17-25)

«Ma noi abbiamo questo tesoro in vasi di terra, affinché questa grande potenza sia attribuita a Dio e non a noi. Noi siamo tribolati in ogni maniera, ma non ridotti all’estremo; perplessi, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; atterrati, ma non uccisi; portiamo sempre nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo; infatti, noi che viviamo siamo sempre esposti alla morte per amor di Gesù, affinché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale». (II Corinzi 4, 7-11)

Care sorelle e cari fratelli,

è bello ritrovarci dopo 15 anni, Assemblea generale dell’Unione battista e Sinodo delle chiese valdesi e metodiste; è bello e istruttivo esaminare il percorso che abbiamo svolto insieme e ringraziare il Signore per tutte le situazioni in cui abbiamo saputo cogliere le possibilità di testimonianza comune. Avremo certamente anche da riconoscere gli errori commessi e le occasioni perse, ma a questo siamo abituati – non a caso poco fa abbiamo confessato il nostro peccato al Signore.

Ma la parte più difficile sarà un’altra. Sarà immaginare il futuro della nostra testimonianza comune. Basta soffermarci un istante su com’è cambiato il mondo – e le nostre chiese – dall’ultima volta che ci siamo visti e viste per renderci conto delle difficoltà. Chi nel 2007 avrebbe immaginato l’esperienza della pandemia o quella di una nuova, tragica guerra in Europa, con l’impatto, diretto e indiretto, che hanno avuto e ancora avranno sulla vita delle nostre chiese?

Come sarà il mondo tra 15 anni? Come sarà cambiata la vita nel nostro Paese? Alcune cose sono facili da prevedere: saremo un paese più povero e più disuguale, la popolazione italiana sarà diminuita, l’età media sarà decisamente più alta – nonostante l’aumento dell’immigrazione –, gli investimenti nella sanità pubblica saranno ulteriormente diminuiti – con il conseguente effetto devastante in occasione della prossima pandemia – lo smantellamento della scuola pubblica e dell’università sarà proseguito, il clima sarà diventato più estremo.

E le nostre chiese? Proiettando la tendenza attuale, nel 2037, i membri delle chiese bmv, dagli attuali 20.000 saranno scesi a circa 16.000, i pastori e le pastore da 110 a una novantina. L’età media dei membri sarà certamente più alta, e di parecchio, scuola domenicale e catechismo degli adolescenti saranno diventate delle attività occasionali, saremo un po’ più conosciuti nel nostro Paese, i rapporti ecumenici avranno fatto un ulteriore passo avanti, ma la vita delle chiese sarà sempre meno centrata sulla dimensione comunitaria e sempre più sull’offerta di attività su richiesta – in larga parte online – e sulla diaconia comunitaria, per venire incontro alle esigenze alimentari, sanitarie, sociali e abitative del crescente numero di persone che saranno escluse dai servizi pubblici in corso di smantellamento per poter dirottare le risorse sul riarmo.

Non è una visione rosea.

Certamente, viste così, le cose non possono che darci da pensare e soprattutto farci preoccupare seriamente. Eppure, come Paolo ci ricorda quando parla della fede di Abramo, noi siamo chiamate e chiamati a «sperare contro speranza». Ho trovato una bella definizione di cosa è la speranza: «La speranza è la fede coniugata al futuro». Ecco allora che dal momento che stamattina stiamo facendo questo esercizio di guardare al futuro, di provare a immaginare il nostro futuro come chiese battiste, metodiste e valdesi, ci può aiutare magari farlo cercando di coniugare la nostra fede al futuro. 

Le parole di Isaia che abbiamo appena ascoltato sono bellissime, una promessa da parte di Dio che apre a un futuro diverso da quello che chi le ascolta si era immaginato. Un tempo in cui il mondo sarà rinnovato completamente e in maniera meravigliosa, ci sarà pace con Dio e tra le persone e nell’intero creato. La vita sarà piena, nel vero senso della parola. Il lavoro non sarà più meramente fatica fine a se stessa: «essi costruiranno case e vi abiteranno, non pianteranno perché un altro ne mangi», i genitori non si preoccuperanno più di come sarà il futuro dei propri figli.

“E certo”, mi direte voi, “ eppure tutto quello che vediamo al momento è completamente l’opposto, “non hai sentito quello che ha detto Daniele? Non leggi i giornali, dove vivi?”. 

Mi immagino quante volte Abramo se lo sarà sentito dire… “ ma sei sicuro?” “ ma non vedi che sei vecchio?” “Guardati attorno, osserva attentamente”.

E anche Israele con i mille problemi di una città e una identità da ricostruire avrà pensato la stessa cosa delle parole di Isaia. In fondo la loro esperienza era completamente l’opposto.

Eppure ascoltiamo queste parole e fermiamoci un attimo, ponderiamole attentamente e se proviamo a coniugare al futuro la nostra fede nel Dio che ha fatto queste promesse, che ha costantemente mantenuto fedeltà alla sua parola, ecco che allora tutto questo non è un vaneggiare o un ottimismo sfrenato ma una realtà che Dio ci apre davanti, che le nostre chiese possono vivere e portare al mondo intorno a noi.

Hai ragione Lino, mi sono fatto prendere dal pessimismo. Sono caduto nella trappola denunciata molti anni fa da Albert Camus quando scriveva «Questo mondo è avvelenato dall’infelicità e sembra compiacersene (…) Non rendiamocene complici». Non vogliamo, non possiamo compiacerci delle tragedie che viviamo. Senza sottovalutarne la gravità, né chiamarcene fuori come se non ci riguardassero, dobbiamo reagire, dobbiamo affrontarle, non ci è concesso cedere alla disperazione.

Come dice l’apostolo Paolo, noi siamo tribolati in ogni maniera – diciamo pure che siamo in seria difficoltà, – ma non siamo ridotti all’estremo; siamo perplesse – quanto siamo perplesse – ma non siamo disperate; siamo perseguitati – non più dall’inquisizione o dal cattolicesimo oppressivo degli anni ’50, ma dalle difficoltà interne delle nostre chiese, dalla paura di non trovare un modo efficace di vivere nelle tragedie del nostro mondo – ma non siamo abbandonati; siamo atterrate – quando una chiesa locale si spacca o chiude i battenti, quando intorno a noi le persone si impoveriscono, subiscono ogni sorta di violenza e si disperano – ma non siamo uccise.

Forse allora dovremmo avere il coraggio di Paolo e riconoscere nella fragilità delle nostre chiese, nel venire a mancare delle persone che ci rassicuravano e dei punti di riferimento, nell’incertezza che viviamo riguardo al futuro quel vaso di terracotta che porta dentro di sé il tesoro dell’Evangelo. Forse dobbiamo osare riconoscere che queste nostre fragilità, queste nostre sofferenze sono ciò che ci fa portare il morire di Gesù nel nostro corpo ecclesiastico, affinché proprio questa nostra realtà ecclesiastica, così difettosa, così traballante, possa essere il luogo in cui la Vita di Gesù si manifesta – a noi e, per mezzo nostro, al mondo intorno a noi.

Esattamente. Possiamo essere tribolati, perplessi, e, specie in questo periodo, disorientati. Siamo un po’ come quel pugile che avendo ricevuto un “gancio” barcolla cercando di non cadere. Gli ultimi due anni ci hanno dato un colpo che ci ha fatto traballare e stiamo cercando di ritrovare l’equilibrio, poco a poco. Abbiamo bisogno di riorientarci nella direzione che il Signore ci invita a seguire, quella che porta verso la croce e alla nuova vita in Cristo. E abbiamo bisogno di guardarci attorno ed essere coscienti che il Regno non è venuto meno, continua, come il granello di senape, a crescere attorno a noi.

Possiamo scegliere di arrenderci e dichiararci sconfitti oppure, prendendo spunto da chi ci ha preceduto nella fede, “sperare contro speranza”. La vita di fede come ben sappiamo non è spesso un cammino semplice, in pianura; dobbiamo attraversare valli e scalare monti, prendere vie secondarie e a volte fermarci per la stanchezza, ma quello che ci fa andare avanti è la coscienza che non siamo sole e soli ma insieme a noi ci sono sorelle e fratelli e soprattutto il Signore è al nostro fianco. 

La Parola di questa mattina ci invita a guardare avanti con ottimismo, che non è ingenuità, è fede coniugata al futuro. È nostro compito prendere sul serio questa parola e, anche in questi giorni che Dio ci dà per stare insieme, portare una parola di speranza per questo nostro Paese e per le nostre chiese, specie in un momento in cui le parole che vengono urlate attorno a noi prospettano tutt’altro. 

Sì, è giusto, è necessario. Coniughiamola al futuro questa nostra fede!

Noi crediamo che Dio ci dona un futuro. Noi crediamo che Gesù Cristo è, e sarà, la nostra speranza. Noi crediamo che il Soffio di Dio continuerà a rinnovare questo nostro mondo e a riaccendere, sempre di nuovo, la speranza per mezzo della sua Chiesa.

E voi, sorelle e fratelli? Di fronte alle tragedie che viviamo, riuscite a confidare nel futuro che Signore ci dona? Come immaginate l’esistenza delle nostre chiese tra quindici anni?

Per esempio, c’è qualcuno di voi che pensa che tra quindici anni la propria chiesa locale avrà convertito un significativo numero di persone? Invito chi lo pensa ad alzarsi in piedi. 

E chi di voi è convinto o convinta che la nostra predicazione darà dei frutti nei prossimi quindici anni – qualunque essi siano? Prego anche queste sorelle e questi fratelli di alzarsi in piedi. 

Chi di voi pensa che nei prossimi quindici anni l’azione diaconale delle nostre chiese avrà un effetto positivo nella società italiana? Alzatevi anche voi in piedi.

Chi è convinto che nei prossimi quindici anni troveremo delle risposte fondate sull’Evangelo alle nuove sfide che la società ci porrà? Alzatevi in piedi.

Chi pensa che la prossima Assemblea-Sinodo (tra quindici anni, o anche un po’ prima) farà degli ulteriori passi avanti nella fraternità e nella testimonianza comune delle chiese battiste, metodiste e valdesi? Alzatevi.

Chi di voi crede che nel corso dei prossimi quindici anni, qualunque cosa accada, il Signore continuerà a camminare insieme a noi, nonostante i nostri limiti e le nostre infedeltà?

Fratelli e sorelle, celebriamo il Dio che ci dona un futuro e ci permette di sperare contro speranza, cantando insieme l’inno 27 dell’Innario cristiano.

* Il testo che pubblichiamo è il sermone del culto che ha aperto la sessione congiunta dell’Assemblea dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia e del Sinodo delle chiese metodiste e valdesi, a Torre Pellice, domenica 21 agosto. La predicazione è stata svolta a due voci; le parti in carattere tondo sono state pronunciate da Daniele Bouchard, le parti in corsivo da Lino Gabbiano.

Da chiesavaldese.org