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Politica: seguiamo ciò che succede

In un libro dedicato all’opera di F. M. Dostoevskij, il teologo anglicano Rowan Williams (arcivescovo di Canterbury dal 2003 al 2013) fa un’osservazione interessante e utile per l’oggi: nei libri dello scrittore russo – dice – più che in quelli di altri autori, si pone in maniera scomoda la domanda relativa a «quanto gli uomini debbano gli uni agli altri». A parte il limite di considerare la sola parte maschile dell’umanità, il problema che egli pone va al di là della letteratura e investe molti ambiti, fra cui quello della politica: non solo in Italia, ma qui più che altrove, e non solo ora che la legislatura è finita come è finita, si avverte la distanza tra la politica e la vita civile.

Da decenni ci lamentiamo della scarsa concretezza dei programmi dei partiti, dell’attenzione rivolta più che altro ad alleanze e candidature, dei piccoli e grandi giochi di potere, mentre tanti sono i problemi reali e pressanti, acuiti poi dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina con tutto ciò che ne consegue a livello sociale. La politica non è solo questo. Nel corso del tempo si sono instaurati dei meccanismi di riequilibrio della funzione pubblica che, pur tra molte difficoltà dovute a una burocrazia farraginosa, consentono una certa trasparenza e “leggibilità”, se non altro degli atti formali che intercorrono tra lo Stato e i cittadini e cittadine. Non è cosa per tutti, perché bisogna districarsi nel mondo di Internet.

La politica sta anche e proprio in quello che Rowan Williams attribuisce ai libri di Dostoevskij: la capacità di porre il problema fra le scelte degli uni (e delle une) e le conseguenze per tutti gli altri e altre. E la domanda non riguarda solo l’agire politico: quanto di ciò che sto facendo è in relazione con quello che stanno facendo le altre persone intorno a me? Quanto della mia vita è determinato dalle azioni (o dalle mancate azioni) di chi condivide con me il nostro abitare questo mondo e questa società? E anche in ambiti più ristretti, come la famiglia, la scuola, le nostre stesse chiese, se solo ci si ragiona un momento, ci si rende conto che gli anni della formazione, l’assistenza, la crescita comune in gruppi giovanili o di attività sono parte costitutiva del nostro crescere come individui. Il Covid, poi, ci ha fatto capire che senza alcune categorie di persone (dal settore sanitario alla distribuzione di generi di prima necessità) non avremmo saputo come andare avanti.

Eppure, la politica è percepita come astratta: è fatta di una complessità che spiana la strada alla burocrazia più perversa. E i tentativi di “semplificare” i meccanismi dello Stato o di alimentare paure su basi labili (come la presunta invasione di clandestini) servono solo a distogliere l’attenzione dai problemi reali. Il meccanismo è perverso, perché si autoalimenta: meno credo all’intervento da parte degli altri sotto forma di scelta, di decisioni di cui si porta la responsabilità, e meno riterrò di potermi affidare a loro.

Fare politica significa fare delle scelte comprensibili di cui rispondere. Significa partire dai propri ideali, e metterli a confronto con quelli altrui; significa saper mediare, verificare la praticabilità delle scelte ispirate a questi ideali, pesarne le compatibilità e poi decidere, rendendosi disponibili a spiegare bene il perché delle scelte (evangelicamente, siamo chiamati a «render conto della speranza» che è in noi). Ma la politica non è solo questo: richiede da parte nostra il desiderio di capire e la fermezza nel chiedere spiegazioni. Invece un certo fatalismo ci porta spesso a diffidare in via di principio, e questo ha una conseguenza ancora più triste: adagiandoci nella convinzione che tanto la politica è “roba d’altri” che ci piove addosso non si sa bene perché, ci rinchiudiamo in una autosufficienza che poi è sterile (proprio la pandemia ha dimostrato quanto, nel bene come nell’esposizione a rischi, le nostre vite siano intrecciate). Non riconoscendo i nostri limiti perdiamo di vista che c’è chi sta facendo qualcosa che ci coinvolge. E così perdiamo anche il senso della riconoscenza, che, seppure con occhio vigile, dovremmo avere nel cuore.

La strutturazione delle nostre chiese in assemblee che partono dalla comunità locale e arrivano, quest’anno, all’assise che sta per cominciare a Torre Pellice, costituisce un buon retroterra, che ci abitua a capire come si formano le decisioni e ci educa alla partecipazione democratica; siamo dunque chiamati e chiamate a portare “nel mondo”, senza conformarci a quest’ultimo (Romani 12, 2), anche questa capacità di discernimento, insieme all’idea principale che ci muove, quella dell’agape di Cristo. Saremo sempre critici, di fronte a coloro che «si compiacciono del nulla» – così la scrittrice e traduttrice Elena Loewenthal traduce Michea ( cap. 6, I dodici profeti, Einaudi, 2013). Lo faremo convinti che la politica non è e non può essere “il nulla”, anzi presuppone dedizione e servizio.

 

Foto di Camera dei deputati