istock-1286267924

Di donne e di diritti

La prima volta che entrai a Kobané, nel Kurdistan siriano, le forze del Daesh erano state appena cacciate dalla città grazie a una resistenza determinata condotta strada per strada dalle donne e dagli uomini inquadrati nelle file delle forze di liberazione popolare. Era la fine di febbraio 2015 e Kobané era per la gran parte in macerie che ricoprivano le vie, nelle case era pericoloso entrare poiché nella fuga gli occupanti jihadisti ne avevano minato le stanze. Lo stato di distruzione della città mi lasciò attonita, anche se credevo di esservi preparata avendo già visto Baghdad dopo i bombardamenti angloamericani del 1991, e Kabul ferita e devastata da decenni di conflitti e mai ricostruita del tutto. 

Ma ciò che catturò la mia attenzione e mi emozionò in mezzo allo sfacelo, fu ritrovare nelle giovani donne che incontrai e con cui parlai la stessa forza e determinazione nel perseguire quei diritti di libertà, giustizia, democrazia e pace che avevo testimoniato più e più volte, nelle missioni che avevano portato a incrociare il mio cammino di vita con quello delle donne resistenti dell’Iran e dell’Afghanistan. Un senso di protagonismo il loro che supera la battaglia per la conquista di uguali diritti in ogni ambito dell’esistenza in società tradizionalmente patriarcali, e si fa, attraverso la contrapposizione dei propri corpi femminili, politica attiva che riguarda tutte e tutti, il proprio paese, la propria terra.

Ogni giorno, sul campo militare o in quello dell’attivismo civile, queste donne si elevano costruendo un’alternativa per un futuro in cui i diritti – che per noi in occidente sono introiettati quasi per diritto di nascita tanto da smarrirne il senso primigenio – diventino realtà. Nel silenzio dettato dal disinteresse della politica internazionale che solo sporadicamente accende i riflettori a secondo delle manovre geo-strategiche del momento, queste attiviste portano avanti la loro azione pagando la maggior parte delle volte dei costi personali altissimi, per cui nessuna di loro recriminerà mai. 

L’insegnamento principe da loro appreso è la coesione che supera personalismi, appartenenze etniche o religiose, e punta partendo dal basso alla costruzione di una società inclusiva in cui nessuna o nessuno sia straniero: i diritti sono, anzi devono essere di tutte e tutti. Che significato declinato nella pratica quotidiana possono avere parole come “libertà”, “uguaglianza”, le stesse “pace” e “democrazia” se non vengono poste sotto l’ombrello ideologico e politico di “fratellanza/sorellanza”? È con il termine “sorella” che tante di queste attiviste si appellano, un modo per riconoscersi, certo, ma soprattutto inteso ad abbattere confini, cancellare limiti e costruire ponti. Nel loro agire politico ho ritrovato simboli ed espressioni comuni, a significare che la battaglia per la conquista dei diritti umani, civili, delle donne appartiene a ogni essere umano e deve essere per questo difesa e rivendicata in ogni angolo del mondo.

Ciò che mi angustia da giorni è il silenzio calato come drappo pesante, sui loro destini.

La guerra scatenata dalla Russia in Ucraina ha posto sul proscenio il dramma di un popolo a noi geograficamente vicino, ma ha anche messo alla prova la tenuta dell’unità dei governi europei, causando ulteriore pressione sulle popolazioni già provate socialmente ed economicamente da due anni di pandemia. Fallito l’assunto capitalistico che il libero mercato avrebbe portato il benessere generale, con questo conflitto è saltato anche l’altro per cui il libero commercio è a fondamenta di pace duratura tra le nazioni. Conseguenza, gli assetti strategici internazionali s’irrigidiscono e a mostrare limiti oggettivi nella difesa dei diritti universali è proprio l’Unione Europea: è un fatto la contrattazione con Erdogan per l’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato in cambio dell’estradizione di decine di rifugiati politici curdi e turchi.

Niente di nuovo. Nelle trattative con l’Iran per il controllo del nucleare la questione del rispetto dei diritti umani e delle donne non fu mai messa all’ordine del giorno. Stesso copione per i colloqui avvenuti a Doha con i talebani. L’insegnamento delle attiviste curde, afghane, iraniane e di tantissime altre donne resistenti nel mondo è che i diritti o sono di tutte e tutti o non sono. A loro penso tutti i giorni, alla lotta che non abbandonano nonostante il disinteresse, o l’attitudine a una narrazione omologata. A noi il compito di rompere il silenzio.