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Aborto: in Piemonte obiettore un medico su due

In Piemonte quasi un medico su 2 rifiuta di praticare l’aborto. Il dato emerge da un accesso agli atti effettuato dal vicepresidente della commissione sanità del consiglio regionale Domenico Rossi, che ha voluto fornire un quadro preciso dello stato dell’arte della sanità piemontese in tema di diritto all’interruzione di gravidanza. Il suo lavoro ha portato all’emersione di quello che a tutti gli effetti rappresenta un ostacolo, non soltanto all’autodeterminazione delle donne, ma anche alla loro salute.

Se forse non è un caso che la presentazione di questi dati sia avvenuta in un momento in cui il tema risulta di grande attualità per le note vicende d’oltreoceano, l’iniziativa prende le mosse dal percorso intrapreso dall’attuale amministrazione regionale (o meglio, parte di essa): dalla presenza accordata alle associazioni pro-vita nei consultori all’obbligo di ricovero per l’aborto farmacologico (in contrasto con le linee guida ministeriali) per arrivare al finaziamento di 400.000 euro stanziati in favore delle suddette associazioni e destinate, attraverso la loro intermediazione, alle donne che intendono abortire per motivazioni economiche.

«L’azione politica dell’assessore Marrone ha dato ulteriore spinta alla nostra proposta – spiega Domenico Rossi – perché ha messo in evidenza come esista da parte di alcune forze conservatrici un attacco ai diritti delle donne che in Italia passa dall’attacco alla legge 194, spesso in maniera non diretta. In questo quadro abbiamo deciso di fare un passo in avanti nella direzione della trasparenza e della chiarezza evidenziando che in alcuni territori un diritto sancito per legge arranca a causa dell’alto numero di obiettori».

Il documento riporta una media, su base regionale, del 46% di obiettori tra i medici delle Asl piemontesi: un dato sostanzialmente in linea con la media nazionale, che presenta però punte che toccano il 90% (come nel caso record di Novara). Percentuali alte anche a nei presidi ospedalieri di Novi-Tortona e Casale-Acqui, dove si raggiungono il 77 e il 75 per cento, così come a Rivoli e Susa.

«Su queste realtà la nostra richiesta è che si intervenga con azioni di medio periodo: ci rendiamo conto che non è possibile risolvere il problema dall’oggi al domani, ma sappiamo altrettanto bene che è possibile indire concorsi in cui vengano esplicitate le mansioni da ricoprire, oppure, laddove la percentuale superi la metà degli obiettori, prevedere una turnazione che consenta un maggiore equilibrio senza caricare l’intero compito su chi, pur non essendo obiettore, deve avere anche la possibilità di svolgere altre mansioni».

La ricerca è quindi quella di un equilibrio tra il diritto alla scelta e alla salute delle donne e quello, altrettanto sancito per legge, dell’obiezione di coscienza in un quadro che metta al centro non il singolo ma il benessere collettivo. «L’obiettivo non è di mettere in discussione la scelta personale – conclude Rossi – ma il servizio pubblico dev’essere in grado di garantire alle donne la libertà di scelta e, in quest’ottica, il primo passo da fare è non ignorare il problema, cosa che in passato qualcuno ha fatto».