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Fra i libri di Yehoshua per cercare noi stessi

Aggirarsi fra le pagine dei libri di Abraham B. Yehoshua è un’impresa complicata quanto sorprendente: è come cercare di mettere ordine in una grande stanza, alla ricerca di qualcosa che non sappiamo se troveremo, e che forse non esiste proprio. Così almeno pensiamo noi perché poi, in realtà, troviamo sempre. Cerchiamo qualcosa, un po’ a tentoni, e finiamo per scoprire noi stessi. Ruth Kartun Blum, in uno studio sul romanzo Il responsabile delle risorse umane (2004, ed. it. 2010), fa riferimento a una sorta di “dramma morale, in cui «ognuno è potenzialmente attore, è il dramma di noi tutti» (Rassegna mensile di Israel, n. 1, gennaio/aprile 2006). 

È proprio così: innanzitutto perché i personaggi di Yehoshua, scomparso oggi a 85 anni, sono gente che lavora sempre, mai ferma; professioni dinamiche, impegnative, che hanno a che fare con il paesaggio e con la società, come avviene nel recente Il tunnel (2018), il cui protagonista è un ingegnere settantenne da poco aggredito da una forma di demenza. E ci sono tanti medici (uomini e donne), gente d’azienda, militari, un progettista di ascensori, giovani pieni di speranze o delusi, alla ricerca di altre esperienze, come la ragazza di Ritorno dall’India, che in un viaggio alla ricerca di se stessa ha contratto l’epatite. Le nostre vite sono in questi libri come dei cantieri sempre aperti: aperti all’imprevisto, al rischio, ma anche al ricordo e alla nostalgia, in una dialettica non semplice fra solitudine e gelosia per i propri sentimenti. Ci sentiamo, di volta in volta, mariti e mogli, amanti, figli e figlie, capoufficio, infermiera, perché infinita era la capacità dell’autore di aggirarsi nelle pieghe degli abiti che indossiamo per ripararci dagli eventi esterni. Non a caso Yehoshua disse spesso di dovere molto, nella scrittura dei propri libri, alle discussioni con la moglie psicoanalista, scomparsa nel 2016.

Molcho, protagonista del romanzo che a livello del tutto personale considero il più bello, Cinque stagioni (1987, ed. it. 1993), è appena rimasto vedovo e affronta questo periodo di poco più di un anno (cinque stagioni, appunto) circondato dalle attenzioni degli amici che, a fin di bene, lo assillano con le ipotesi di una nuova possibilità di vita personale e familiare, magari attraverso l’incontro con una nuova compagna. Non tengono conto della sua ritrosia, della delicatezza con cui Molcho custodisce la memoria della vita comune con la moglie, fino agli anni in cui ha dovuto assisterla. C’è qualcosa di molto personale, che nemmeno la solidarietà affettuosa degli amici può invadere.

E poi c’è, nei libri di Yehoshua, qualcosa che traspare da ognuno e ognuna di noi, anche senza che ce ne accorgiamo: siamo qualcosa di più di ciò che ci accorgiamo di essere. Diciamo qualcosa di importante, a volte, senza averne la consapevolezza. In Ritorno dall’India (1996, ed. it. 1997) il chirurgo, che va a cercare la figlia ammalata, più volte ci fa entrare in contatto con la dimensione dell’interiorità: è inebetito nel sonno/mezzosonno di una trasvolata in aereo, e soprattutto lavora gomito a gomito con il più riuscito fra i tanti personaggi “secondari” dello scrittore, il medico anestesista Nakash, il cui compito è proprio quello di portare il paziente in una condizione sospesa, di incoscienza provvisoria (e qui si sente l’eco di quella specie di “morte apparente” o transitoria che Dostoevskij descrisse, avendola anche sperimentata di persona, nell’epilessia). E le riflessioni di Luria, l’ingegnere colto da demenza del Tunnel, sono le sue di sempre o sono già sconvolte dalla malattia? Chi può tracciare un confine sicuro? Perfino Dio, leggiamo nel libro di Giobbe, non disdegna di parlare all’uomo per mezzo di sogni e visioni notturne (33, 15-17). 

Ognuno di questi personaggi compie un itinerario, come Molcho, nella sua elaborazione del lutto, ma a essere importante, in realtà, non è tanto l’esito, quanto il processo, un processo interiore e un processo di relazione con gli altri. Ognuno si lascia cambiare dagli altri e dagli eventi, oppure vi resiste. Ma non si ritrova mai a essere quello o quella di prima. Ciò non sorprende da parte di un gigante della letteratura ebraica (in questo caso ebraico/israeliana): la vicenda dell’Esodo non è solo fuga e l’arrivo nella terra promessa, ma è soprattutto la crescita di consapevolezza di un grande gruppo che diventa un popolo; ognuno di noi, suggerisce il filosofo della politica Michael Walzer, deve attraversare un proprio deserto, un lutto, una mancanza, una limitazione.

Forti erano per Yehoshua le radici a cui ancorarsi per sostenersi in questa intrapresa: una cultura, una rete di relazioni, una “diplomazia” anomala, praticata per anni insieme ai colleghi scrittori David Grossman e Amos Oz, perché i libri non sono un pianeta distante dalla vita. Se i loro protagonisti (come i protagonisti delle vicende bibliche) non sono diversi e diverse da noi, il suo autore potrà a buon diritto inserirsi nei dibattiti d’attualità del proprio tempo. Anche per questo Yehoshua ci mancherà: per la sapienza e la pacatezza con cui entrava in dialettica con chi era meno paziente. Per l’affetto con cui guardava a uomini e donne dei suoi racconti: anche là dove le armi svolgono crudeli il loro lavoro (L’amante racconta la città di Haifa nel mezzo della guerra del 1973), mai l’autore disprezza qualcuno. Yehoshua ha sempre cercato, tramite i suoi personaggi, il bene (Deuteronomio 30, 19);  anche là dove il male sembrava prevalere; ha mostrato per quewsti uomini e queste donne un affetto indicibile; ha costruito vicende realistiche e altre immaginifiche, per avvicinarli anche a noi; ha sfruttato la sua straordinaria tecnica narrativa per metterci in contatto con loro anche facendoci leggere una voce sola – i famosi “dialoghi monchi” del Signor Mani, in cui, come stando vicini a qualcuno che telefona, prima che esistesse l’odioso “viva voce”, sentiamo un dialogo a metà e dobbiamo immaginarci ciò che dice l’altro l’interlocutore. Che, a ben pensarci, potrebbe anche essere quello che abbiamo dentro di noi.

 

 

Foto: Abraham Yehoshua a Napoli, incontro del 1998