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La malattia si combatte, il malato si guarisce

 

«Si può definire l’uomo moderno come un essere che si abitua alle catastrofi. Soggetto a un abbrutimento forzato, egli è diventato sempre meno sensibile; il suo senso dell’orrore sta via via scomparendo. Si affievolisce il suo senso di distinzione tra il bene e il male. Tutto quello che ci rimane è di sentirci inorriditi per la perdita del nostro senso dell’orrore». Ariel Di Porto, rabbino capo della Comunità ebraica di Torino, nel riportare il pensiero del filosofo e teologo polacco Abraham Joshua Heschel, ha aperto una finestra sul diffuso sentire contemporaneo rispetto a uno dei quesiti irrisolti con i quali inevitabilmente ogni generazione si confronta e che ha dato vita, con il titolo «Sappiamo ancora riconoscere il male?» ai tre giorni di convegno organizzati dal Centro culturale protestante di Torino.

Si sono confrontati docenti della Facoltà valdese di Teologia (Fulvio Ferrario, Daniele Garrone, Eric Noffke), docenti di diverse branche della Filosofia (Claudio Ciancio, Mauro Belcastro), ma anche di altre discipline, come l’economia, le scienze della comunicazione, l’antropologia (Giovanni Balcet, Peppino Ortoleva, Chiara Simonigh, Christoph Wulf, Carlo Galli, Sergio Manna, Paolo Vineis) in una pluralità di approcci e di punti di vista religiosi (Enzo Bianchi, Svamini Shuddhananda Ghiri – Unione induista italiana). Moderati da Mauro Belcastro, Maria Bonafede, Paolo Ribet e Federico Vercellone, gli interventi hanno affrontato le molteplici declinazioni del male: come dolore, sofferenza, violenza, anche economica, ingiustizia sociale, modalità di relazionarsi all’altro, forma di potere politico e di comunicazione.

Nel focus dedicato alle religioni, le relazioni di Di Porto, Ghiri, Noffke e Ferrario hanno mostrato come ancora oggi quella domanda inevasa ci interpelli. Come trasmettere nelle società occidentali europee del XXI secolo l’ottimismo di fondo del Nuovo Testamento su cui si è soffermato Noffke? Che il male sia una realtà evidente non toglie nulla al fatto che Gesù lo ha vinto: «Ho visto Satana cadere dal cielo come un fulmine» (Luca 10, 18). E che Satana non sia sparito, ma operi ancora, non ha importanza rispetto al piano salvifico di Dio. La storia del nato cieco in Giovanni mostra che a Gesù non interessa trovare una colpa, ma l’azione riparatrice, risanatrice del Signore. Così è anche nel vangelo di Marco per il paralitico di Capernaum portato da quattro uomini: quello che importa a Gesù è ristabilire l’ordine, l’armonia, l’equilibrio che s’è rotto riconciliando a Sé l’umanità smarrita. Non è solo guarigione, ma anche perdono dei peccati, grazia. Le dinamiche perverse create dagli umani vengono colpite al cuore nella denuncia della ricchezza ingiusta, sintomo della malattia del mondo. E qui l’affondo finale che sconcerta e ci mette in discussione, ieri come oggi: amare il proprio nemico, colui che quella ricchezza ingiusta la perpetua.

Perché la malattia si combatte, il malato si guarisce. L’esito della partita con il diavolo o con tutto ciò che rappresenta, è a vantaggio del bene – ha chiosato Ferrario – ma i colpi di coda del dragone dell’Apocalisse sono micidiali. Ripercorrendo il pensiero di Agostino e la sua teoria del peccato originale quale fonte del male, si staglia l’essere umano, la sua incapacità di salvarsi da solo. L’intervento del Crocifisso è dirimente per dare una svolta alla storia che nel “qui e ora” è conflittuale, in divenire. Nel secondo e terzo capitolo della Genesi è esplicitato: la creazione non è come dovrebbe essere. E tuttavia Dio non l’abbandona, continua ad avere un rapporto anche con la malvagità umana che in qualche modo va gestita. Perché continuare a chiederci qual è la causa ultima del male?

Incombe un pericolo – secondo Garrone –: quello della semplificazione biblicistica che attualizzando il testo lo adatta alle nostre esigenze di avere le risposte che vogliamo. La sfida invece è riscoprire la responsabilità ermeneutica partendo dall’esperienza di un testo che ci è esterno, a tratti indigeribile. Senza spirito critico le religioni diventano strumenti a uso e consumo dei tempi. C’è chi trova il fondamento teologico dei diritti umani nella Genesi. Peccato che sulla Genesi si è detto anche l’opposto: come può avere diritti chi è caduto nel peccato? A loro volta le religioni orientali hanno le loro proposte: l’induismo – ha sintetizzato Ghiri – ha un approccio propositivo al male di cui non riconosce alcuna consistenza ontologica. Il mondo fenomenico è una realtà illusoria dove tutto è polarizzato, duale. Ma l’Assoluto è oltre la dualità. In quest’ottica bisogna penetrare la superficie visibile e ritrovare in sé stessi la matrice unica che regge ogni cosa. Soggiace un ottimismo antropologico di fondo che il cristianesimo non ha?

Il Sola gratia depotenzia l’uomo e lo esonera dalle sue responsabilità? O piuttosto gli chiede di misurarsi con una potenza altra che lo sovrasta e lo accoglie chiedendogli di deporre le armi e, come a Giobbe, di guardare oltre se stesso financo all’orizzonte cosmico che non ci fa da sfondo irrilevante. Con la violenza che abita nell’umano e nella natura, dobbiamo farci i conti. La pulsione di morte, la fascinazione del male – hanno ricordato Simonigh e Vercellone – esistono. La sovraesposizione alle immagini di violenza cui il mondo odierno ci sottopone, la rappresentazione dell’orrore e dei suoi effetti, della sofferenza ingiustificata degli innocenti, produce negazione, assuefazione, perdita di senso e una non-comprensione che presuppone il crescere di una coscienza sensibile. Come sarebbe possibile se l’io non sente su di sé il dolore dell’altro? È qui che davvero Cristo risorge con l’originalità della sua proposta: ama il tuo prossimo come te stesso. Per farlo occorre farsi prossimi e, soprattutto, non vedere l’altro come il nemico da annientare. Entra in gioco l’etica e dunque la libertà. Che Dio ce l’abbia data è stato un male?

 

Foto di fabrizio.binello