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La via della pace c’è davvero

 

Il giornalista Marco Damilano sere fa in TV diceva che «Il pacifismo è sempre smarrito quando cominciano a risuonare le armi», è vero, in questo contesto noi pacifisti rischiamo di rimanere senza parole, lacerati, e bloccati nelle aporie della nostra coscienza.

I pacifisti odierni portano in sé due culture, quella della sinistra – che non è tradizionalmente pacifista – e quella propriamente pacifista – che non è necessariamente di sinistra ed è largamente cattolica. Portiamo in noi stessi i valori della Resistenza e delle guerre di liberazione, sappiamo che a volte chi combatte lo fa sostenuto da una solida fibra morale. Molti di noi pacifisti siamo stati educati dai nonni partigiani e antifascisti, amiamo cantare “O bella ciao”, possediamo il poster del Che e portiamo una kefiah attorno al collo. Questo accade perché i due mondi, quello democratico e quello pacifista, si sono contaminati vicendevolmente. Chi ha combattuto il nazifascismo amava la pace, e chi oggi ama la pace aborrisce l’imperialismo. Chi ha la mia età sa che il pacifismo ha avuto un rapporto difficile con la sinistra – che ragionava nei termini dei blocchi contrapposti – ma negli anni l’uno e l’altro si sono compenetrati sui temi dell’ecologia, della giustizia sociale, dei diritti, dell’integrazione, della giustizia globale, e nessuno desidera fare passi indietro su ciò che sente di aver conquistato.

Il riarmo, oltre a manifestare le verità che sottolineano i pacifisti, manifesta anche la verità di un serio pericolo per le nostre, benché incomplete, conquiste. Si legge di frequente in queste ultime settimane che è adesso che si stanno veramente ridefinendo gli equilibri del mondo post-muro di Berlino. Ciò sarebbe all’origine del riarmo generalizzato che sta coinvolgendo NATO, UE e anche il nostro Paese. Non mi intendo di problemi di geopolitica, ma, come pacifista, mi devo pur chiedere: “armarmi per fare cosa, contro chi?”. Dietro a ciò che sta avvenendo potrebbe sussistere una strategia. Per esempio, a breve potremmo vedere l’invasione di Taiwan da parte dei cinesi, o il riaprirsi del conflitto afgano, perché il problema degli equilibri geopolitici esiste. Oppure ancora, dietro alcune spinte egemoniche potrebbe esserci una visione del mondo. Se considero cosa lega Putin, Kyrill, Trump, Bannon e gli evangelical, mi vengono in mente i nemici della modernità. I nemici giurati del green, dei diritti, dell’integrazione, della democrazia intesa come equilibrio dei poteri, della libera stampa, del controllo politico dell’economia, dell’emancipazione, dell’autodeterminazione dei popoli. Tutte cose che vorrei proteggere.

La pace, sul piano della coscienza, può essere perseguita pagandone il costo personale della rinuncia a qualcosa di sé; una comunità può decidere di testimoniarla in modo fermo vivendone anche gli aspetti più radicali; ma sul piano sociale e politico persino la pace deve essere mediata. Per esempio, si può dire che siccome Gesù è andato disarmato incontro al proprio destino anche io sono pronto a rinunciare all’autodifesa; si può creare una comunità pacifica radicale come quella degli Amish; ma non si può chiedere alla società civile di andare incontro alla propria dissoluzione. Semmai, si dovrà trovare una mediazione con le altre forze sulla scena politica con l’intento di massimizzare l’impatto delle proprie posizioni.

Negli anni ’80, quando ero ancora studente di teologia e nel dibattito politico si parlava di disarmo unilaterale, Jürgen Moltmann – in una lezione in Facoltà valdese – disse che l’unilateralità esiste solo nel rapporto di riconciliazione tra Dio e l’umanità attuato in Cristo, mentre l’umanità ha ricevuto una vocazione alla reciprocità. La pace si vive nella reciprocità piuttosto che nell’unilateralità. Né la reciprocità ci condannerà, né l’unilateralità ci salverà. Siamo già colpevoli di ciò che sta avvenendo.

Il pacifismo – in tempo di pace – ci ha concesso di vivere il brivido del radicalismo. Oggi – in tempo di guerra – il pacifismo ci mostra alcune delle nostre contraddizioni. Essere contro una guerra che già c’è non la elimina, ed essere contrari agli armamenti non risolve il problema della difesa: «Essi curano alla leggera la piaga del mio popolo; dicono: “Pace, pace”, mentre pace non c’è» (Ger. 6, 14 e 8, 11) – rimproverava Geremia ai falsi profeti che volevano la pace con Babilonia. Sollevare problemi economici e morali può nascondere del cinismo; badare alla salvaguardia della propria coscienza può significare passare dall’altra parte della strada, e non mettere in discussione i propri valori può essere una forma di massimalismo. Questi atteggiamenti apparirebbero ipocriti ai nostri stessi occhi, perché sappiamo che la pace passa attraverso l’attenzione, la solidarietà, la cura e lo sporcarsi le mani, altrimenti si rimane pacifisti senza diventare mai costruttori di pace.

Invece, la via della pace c’è davvero e può essere percorsa. Armare dei resistenti può essere una opzione che non è pacifista, che però può portare alla pace se preceduta, accompagnata e seguita da un serio lavoro diplomatico. Il riarmo non è il miglior modo di spendere i soldi, ma – se ci impegniamo a fare in modo che i trattati rispecchino la ferma disapprovazione della guerra – può rappresentare un efficace elemento di potere contrattuale al tavolo dei negoziati. Il punto d’incontro è già dentro di noi: da un lato nel desiderio di proteggere la società civile sulla quale abbiamo investito tante energie e dall’altro nel ripudio della guerra. Politicamente, significa da un lato tollerare il riarmo e dall’altro pretendere di immettere nella strategia difensiva tutto quel patrimonio di cultura della pace che abbiamo accumulato.

Non si tratta di salvare capra e cavoli, ma di dare voce a quella lacerazione interiore che sentiamo. Non possiamo né rinunciare alla radicalità della pace, né rinunciare a guardare in faccia la realtà, possiamo solo, responsabilmente, vivere umanamente e limitare i danni dell’aggressività umana.