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Congedo di paternità: diritto e dovere

Il 19 marzo è stata lanciata da Filt Cgil la campagna Sei forte papà, con l’obiettivo di sensibilizzare lavoratori e datori di lavoro sull’obbligo di congedo parentale per i padri. Abbiamo intervistato, nella trasmissione Cominciamo Bene di RBE, Giorgia D’Errico, segretaria nazionale di Filt Cgil, per ragionare sul tema.

«Ci siamo accorti» ha spiegato D’Errico «che i numeri dei papà che utilizzano questa misura sono bassi». L’obbligo di legge prevede 10 giorni di congedo da utilizzare nei primi cinque mesi di vita del bambino, mantenendo lo stipendio al 100%. Nonostante la normativa, però, l’utilizzo è basso, com’è emerso dai territori che hanno lanciato l’allarme al sindacato (che rappresenta, nel settore, soprattutto lavoratori maschi). 

«Probabilmente» aggiunge D’Errico «c’è anche una questione culturale». Si dà per scontato che il lavoro di cura dei figli ricada soprattutto sulle madri. «Sentiamo spesso dire “che bravo papà”; meno “che brava mamma”: è ancora una cosa eccezionale. L’obiettivo è quello di una condivisione della genitorialità; arrivare a non avere più nessun tipo di differenza, ad una situazione di equità anche nei carichi familiari. E poi c’è la necessità di far entrare questa misura all’interno delle aziende» anche se, nota ancora D’Errico, ci sono addirittura casi di aziende che offrono più giorni di quelli previsti per legge; ma si tratta chiaramente di casi minoritari.

La campagna di Filt Cgil è quindi concentrata sull’informazione riguardo ad un requisito di legge, ma D’Errico sottolinea che per raggiungere una vera uguaglianza tra i genitori occorrerebbe un’ulteriore espansione di questi provvedimenti. «Portare da 7 a 10 giorni il congedo è stata una battaglia ardua per chi l’ha fatta in Parlamento. Ma 10 giorni sono pochi». D’Errico cita gli ormai quasi stereotipati paesi scandinavi, noti per politiche molto più egualitarie in questo ambito: «La Svezia ha 52 settimane di congedo: siamo agli antipodi». Anche in questo caso, però, ritorna la difficoltà culturale, perché un percorso del genere deve partire «da una consapevolezza e necessità delle persone di condividere i carichi familiari», un bisogno sentito anche dagli stessi papà.

Sebbene l’istanza sia di lunghissima data, lo sconvolgimento vissuto dal marzo 2020 in poi ha esacerbato enormemente le problematiche, portandole a galla. «Abbiamo visto quanto i carichi familiari si siano scaricati sulle donne durante la pandemia. A maggior ragione è un buon momento per fare i conti ed equiparare la situazione». E il tema, a tratti, è stato davvero al centro dell’attenzione: quando i dati sono emersi, nel corso della pandemia, la notizia è stata raccontata e analizzata su varie testate, così come dai vertici governativi. Ma l’impressione è che ora l’attenzione sia stata spostata totalmente altrove, come se il problema fosse scomparso. D’Errico cita, tra le motivazioni, «il sistema di comunicazione del nostro paese», ricordando che i dati relativi all’impatto della pandemia sulle donne ci sono: «soprattutto, sono usciti i dati delle donne che hanno smesso di lavorare o sono state licenziate. Dal mio punto di vista la pandemia ha fatto emergere una situazione che era silente, e ha evidenziato le contraddizioni del nostro paese, sotto molti punti di vista. Io credo che il contraccolpo socioeconomico che questi tre anni hanno provocato non è ancora del tutto terminato. Si tratta di un effetto domino che man mano emergerà».

Tra le questioni dimenticate ci sono anche le dinamiche dei primi tempi della pandemia, quando «la Cgil ha dovuto fare una battaglia per garantire alle mamme che facevano smart working il bonus baby sitting». Tanto più che inizialmente l’idea era di attivare lo smart working soprattutto per le donne, dimostrando ancora quell’automatismo culturale per cui siano le madri a dover stare a casa a badare ai figli. «È stato un momento in cui il quadro della situazione delle donne è emerso clamorosamente. E alla fine ci hanno rimesso sia da un punto di vista professionale, che psicologico e psicofisico. Questo penso che un paese come il nostro non se lo possa più permettere».