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4 aprile 1968. L’assassinio di Martin Luther King

Martin Luther King (pastore battista e considerato tra i leader di rilievo che si spesero per la difesa dei diritti civili) moriva il 4 aprile del 1968 colpito dal proiettile di un’arma da fuoco mentre si trova su un balcone del Lorraine Motel di Memphis (Usa). A dare la notizia in Italia fu allora un giovane Piero Angela, conduttore del Telegiornale del servizio pubblico Rai

Nel 2018 il mondo e l’Italia hanno celebrato i cinquant’anni dalla morte del pastore battista. 

Cinquantanove anni fa, il noto discorso (era il 28 agosto del 1963) con il quale il pastore battista King lanciò al mondo il suo celebre: I have a dream

La cornice di quell’evento, che raccolse oltre 200.000 persone, fu il Lincoln Memorial a Washington, un luogo simbolico per la comunità afroamericana. 

«Nonostante contenesse dure critiche all’establishment degli Stati Uniti, che nel 1963 continuava a negare il diritto di voto agli oltre venti milioni di cittadini di colore, quel discorso – si legge sul sito dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia (Ucebi) –, è ricordato ancora oggi e citato come esempio della coscienza civile americana. La forza e l’attualità di quel discorso sono nella sua capacità di recuperare un tipico elemento della retorica e della cultura americana, il sogno, per esprimere la visione di una società giusta e riconciliata. “Siamo venuti nella capitale del nostro paese per incassare un assegno” – esordì King. 

Quando gli artefici della nostra Repubblica scrissero le magnifiche parole della Costituzione e della Dichiarazione di Indipendenza, stavano firmando una cambiale di cui ogni americano era garante. Questa cambiale era la promessa che tutti gli uomini, sì, l’uomo nero e l’uomo bianco, avrebbero avuto garantiti i diritti inalienabili alla vita, alla libertà, e al perseguimento della felicità. È ovvio oggi che l’America è venuta meno a questa promessa per quanto riguarda i suoi cittadini di colore».

La storia racconta che dopo poche battute del leader afroamericano, l’ampia platea che l’ascoltava fu rapita da quelle parole.

«Il trasporto divenne totale – prosegue l’Ucebi – quando il pastore, con la retorica cantilenante e tipica dei predicatori afroamericani, pronunciò le parole forse più famose di quel discorso: “Anche se affronteremo le difficoltà di oggi e di domani, io ho un sogno. È un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si solleverà e vivrà nel vero significato del suo credo: tutti noi consideriamo questa verità evidente, che tutti gli uomini sono creati uguali. Io sogno che nella terra rossa di Georgia, i figli di quelli che erano schiavi e i figli di quelli che erano padroni degli schiavi si potranno sedere assieme alla tavola della fraternità. Io sogno che un giorno anche lo stato di Mississippi, uno stato ardente per il calore della giustizia, ardente per il calore dell’oppressione, sarà trasformato in un’oasi di libertà e giustizia. Io sogno che i miei quattro figli piccoli un giorno vivranno in una nazione dove non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per il carattere della loro personalità”».

L’idea di quel discorso, di quel sogno è stato nel tempo più volte rievocato, adattato, citato, adeguato alle diverse necessità. L’ha fatto recentemente anche il leader ucraino Volodymyr Zelensky rivolgendosi al Congresso americano: «Martin Luther King diceva “I have a Dream. Io vi vi dico: I have a need”, in quel caso la richiesta era quella di proteggere i cieli dell’Ucraina. 

Nonostante il grande rilievo politico della sua azione e le difficoltà con la dirigenza delle chiese, King rimase sempre fedele alla sua vocazione di pastore e mai abbandonò il linguaggio tipico dei sermoni domenicali, ricorda ancora l’Ucebi. 

«Anche al Lincoln Memorial – concludendo il suo discorso – King volle così affermare: “Questa è la fede con cui ritorno al Sud. Con questa fede potremo tagliare una pietra di speranza dalla montagna della disperazione. Con questa fede potremo trasformare il suono dissonante della nostra nazione in un’armoniosa sinfonia di fraternità. Con questa fede potremo lavorare insieme, pregare insieme, lottare insieme, andare in carcere insieme, sollevarci insieme per la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi, e questo è il giorno. Questo sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio potranno cantare con nuovo significato: “Il mio paese è tuo, dolce terra di libertà, di te io canto”».

Dopo la morte di King sarà la moglie a prendere in mano le redini del movimento per i diritti civili, Coretta Scott King, lei stessa attivista.

Di Coretta, Martin Luther King disse, «Il mio orgoglio maschile mi suggerirebbe di dire che ho plasmato la coscienza politica di mia moglie, ma non è così». 

Qualche giorno dopo l’assassinio, Coretta Scott King guiderà la marcia a nome dei lavoratori del servizio sanitario a Memphis, sostituendo il marito e nello stesso mese terrà il suo discorso alla manifestazione contro la guerra in Vietnam a New York, fino a diventare una delle più influenti leader afro-americane per i diritti civili. 

Un libro, ancora disponibile, ripercorre quelle tappe: La mia vita con Martin Luther King (Pgreco edizioni), dove Coretta «fa confluire il pensiero che li spinse a condurre instancabili battaglie contro la segregazione razziale e a favore della pace nel mondo. Un’opera che rispecchia quella filosofia della non violenza condivisa con Martin Luther King e che l’ha elevata a guida nazionale per gli afro-americani e a icona del pacifismo».

La pubblicazione più recente dedicata a Martin Luther King è invece quella del professor Paolo NasoMartin Luther King. Una storia americana (Editore Laterza), libro che ricorda quanto King, famoso e celebrato per aver dato un’eccezionale forma retorica al «sogno americano» dell’uguaglianza e della giustizia nelle relazioni sociali, denunciò con grande forza l’incubo del razzismo, diventando portavoce del più ampio movimento nonviolento della storia americana. Il libro è una biografia che intende ricostruire l’azione di un uomo e di un movimento che divengono parte integrante della storia americana senza nasconderne i travagli e il progressivo isolamento di «un leader che, denunciando la connessione tra razzismo, ingiustizia sociale e militarismo, firmò la sua condanna a morte».

Foto da Picryl