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René Favaloro, medico della Pampa

Lo dice di sé, in una frase che l’autore del libro ha messo in apertura di uno dei ventotto capitoli (a cui segue una drammatica appendice): «Sono un pazzo, un pazzo totale. Ma difenderò questa mia pazzia fino al mio ultimo giorno tra i vivi». E infatti la sua missione è stata quella di operare fra le persone vive, e mantenerle vive: anche quando la natura, le condizioni sociali pregiudicavano l’incolumità delle persone, con il concorso di una politica sprezzante fatta di sfruttamento e violenza. La vita di René Favaloro percorre le 300 pagine scritte da Luca Serafini*, giornalista e opinionista sportivo, intrecciandosi con quella dei suoi pazienti ma anche con quella delle autorità corrotte dell’epoca del regime peronista. Rifiutandosi di sottostare ai diktat del governo, il giovane neolaureato si trova catapultato nella Pampa, a Jacinto Arauz, dove ha sede una struttura per anziani della Chiesa valdese. Poi, nel 1967, l’evento che lo rende celebre nel mondo: il primo intervento di bypass aorto-coronarico in una grande clinica di Cleveland. Ma la vita di questo grande uomo e grande medico lo riporta in patria, nell’epoca della dittatura e dei desaparecidos, sempre accanto alla gente. Ne parliamo con l’autore del libro.

– Favaloro è stato medico, chirurgo, ha sviluppato tecnologie che hanno cambiato la pratica cardiochirurgica, era impegnato politicamente: perché dice di sé che era un pazzo?

«Era la follia di un visionario e di un uomo coerente con la sua integerrima visione della vita, basata su valori fondamentali: la famiglia, la giustizia sociale, il rapporto con i pazienti e con la loro anima. Rifiutò l’assunzione nella sua clinica universitaria, appena laureato, perché prevedeva l’adesione al regime peronista e così si trovò a esercitare come medico di campagna nella Pampa. Laggiù, eravamo negli anni Cinquanta, fece arrivare la macchina per i raggi X e fondò la banca del sangue. A Cleveland poteva diventare miliardario dopo aver inventato il bypass aortocoronarico, ma preferì tornarsene in Argentina per creare la sua Fondazione. E nel libro troverete decine di altre prove della sua straordinaria follia positiva».

– Nella Pampa Favaloro si confronta anche con la sapienza popolare: nel corso di un parto difficilissimo, acconsente a una proposta dell’anziana levatrice per una procedura ormai inutile, dato l’intervento farmacologico che il medico stava compiendo. Ma acconsentire serviva a conquistarsi la fiducia della gente del posto: quanto contava questo tipo di relazione “non spocchiosa”? Oltre che a un “Albert Schweitzer nella Pampa”, anziché nella giungla, fa pensare anche a quello che racconta Carlo Levi…

«Fu fondamentale per crearsi la sua pletora che lo avrebbe aiutato nella costruzione di una clinica, nell’insegnamento, nella prevenzione. Diventò amico e confidente di nutrici, guaritrici, insegnanti che avrebbero sorretto la sua missione di istruzione di un popolo che viveva allo stato brado».

– La scienza, dice il protagonista del libro, non può andare disgiunta dalla coscienza, esse sono alleate: siamo riusciti a ricordarcene nell’epoca della pandemia?

«Non sono ottimista. Da sempre l’umanità ripone le sue speranze nei giovani, ma ai giorni nostri questo non è più uno slogan, un dogma: è una necessità. La mia generazione ha fallito, quella di mezzo non se n’è accorta. Abbiamo distrutto l’ambiente, la pace, la fede, la tolleranza. La democrazia e i valori della famiglia sono ai minimi termini. Far conoscere ai giovani che sono esistiti e potrebbero essere ancora tra loro, uomini come René Favaloro, è un messaggio universale e grandioso». 

– A Jacinto Arauz la chiesa valdese ha tuttora un istituto per anziani. Nelle pagine di quella parte del libro si ritrovano i cognomi familiari delle valli valdesi del Pinerolese: Gonnet, Pilòn: quali sono stati i rapporti di Favaloro con i valdesi?

«Gli argentini sono classisti, anche tra di loro. Sono loro stessi a definirsi tali. Favaloro era aperto a tutto e a tutti, e quando ebbe modo di conoscere i valdesi, si sentì subito uno di loro per apertura e tolleranza nei confronti del prossimo, a prescindere da ceto, etnia, religione eccetera. La sua natura si sposò perfettamente con la filosofia valdese e furono proprio i valdesi a concedergli l’uso dei propri locali per l’insegnamento». 

– Dalla Pampa a Cleveland e alla celebrità dove Favaloro diventa un personaggio fondamentale e poi Buenos Aires dei desaparecidos. Esperienze diverse, ma una persona sola, coerente fino all’ultimo…

«Suo fratello Juan Josè fu una figura centrale nella sua esistenza, tra l’altro – contrariamente a René che non ne ebbe – mise al mondo due figli, Roberto e Liliana, gli attuali reggenti della Fondazione Favaloro a Buenos Aires. Juan Josè fu ucciso investito da una camionetta della Polizia, René fu picchiato e arrestato in gioventù per i suoi ideali. Oggi i murales in Argentina lo ritraggono spesso insieme con Maradona. È stato una leggenda, ma una leggenda in carne e ossa. Un uomo innamorato dell’Italia: i suoi nonni erano emigrati dalle Eolie, da Salina, alla fine dell’800 e lui crebbe con loro. Parlava siciliano, cucinava all’italiana e i suoi viaggi nel nostro Paese sono quelli che gli suscitarono le emozioni più forti. Sono orgoglioso di farlo conoscere agli italiani, in questo momento buio del pianeta e della nostra nazione, lui è una luce abbagliante». 

* Luca Serafini, Il cuore di un uomo. Rizzoli, 2022, pp. 302, euro 18,00. Il libro viene presentato mercoledì 6 aprile alle 18, al Circolo dei lettori di Torino (via Bogino 9) per iniziativa del Colegio de Salamanca.

 
Foto di Ulises Icardi