istock-187803174

La guerra del grano

Mentre prosegue il conflitto in Ucraina scoppiato con l’invasione da parte russa il 24 febbraio scorso, si affaccia sullo scenario globale una nuova crisi, questa volta alimentare. L’Ucraina e la stessa Russia nella stagione 2020/2021 sono stati rispettivamente il quarto e il terzo Paese esportatore di grano a livello globale, secondo i dati dell’International Grains Council, mentre ora le previsioni sono di un calo nel brevissimo periodo che potrebbe avere gravi ripercussioni sulla sicurezza alimentare globale.

Più di mille navi da carico sono costrette a rimanere ormeggiate nei porti ucraini sul Mar Nero e sul Mar d’Azov per la presenza di navi da guerra russe, e questo si traduce in migliaia di tonnellate di grano e mais bloccate senza la possibilità di raggiungere i mercati globali. Bisogna poi tenere conto delle coltivazioni che non possono essere raccolte a causa del conflitto e che restano quindi sul terreno. Al di là del danno economico enorme per l’Ucraina (stimato in circa 6 miliardi di dollari), questa situazione si traduce in benzina sul fuoco dell’inflazione crescente sui beni alimentari. Nel solo febbraio 2022, secondo la FAO, Organizzazione per il cibo e l’agricoltura delle Nazioni Unite, hanno raggiunto un livello record, registrando un aumento del 20,7% su base annua.

A livello internazionale si sollevano però anche alcuni interrogativi sulla sostenibilità dell’attuale sistema economico e di approvvigionamento alimentare. Ucraina e Russia contribuiscono da sole a circa un terzo del fabbisogno mondiale di grano, e questo significa che alcuni Paesi dipendono quasi esclusivamente dalle importazioni per il loro sostentamento. Un approfondimento curato sulla rivista Nature da Alison Bentley, direttrice del Global Wheat Program, prende ad esempio il caso del Libano, che ottiene circa l’80% del suo grano direttamente dall’Ucraina: se già oggi i prezzi sono schizzati alle stelle, quali possono essere le prospettive per il futuro? Cosa accadrà agli altri Paesi fortemente dipendenti dalle importazioni di cereali? 

Ancora una volta a pagare le conseguenze peggiori della crescita dei prezzi saranno i territori più poveri, mentre le nazioni più ricche riusciranno ad ammortizzare meglio gli aumenti. Caso esemplare quello del Nord Africa e del Medio Oriente: il World Food Programme si dice molto preoccupato della situazione alimentare, che mette a rischio la vita di milioni di persone.

Ancora una volta però la crisi viene marchiata come una situazione emergenziale emersa all’improvviso, dimenticando il grandissimo impatto sulla sicurezza alimentare che hanno avuto la pandemia da Covid-19, gli altri conflitti in corso da anni, l’aumento nel tempo dei prezzi del cibo e infine i cambiamenti climatici che hanno messo a dura prova i raccolti. Forse un approccio strutturale alla crisi in atto, con lo studio di soluzioni a lungo termine accompagnate da azioni politiche, economiche, sociali e ambientali immediate potrebbe aiutare a contrastare l’avanzata della fame. Eppure, ancora una volta, a una crisi preannunciata si risponde con sorpresa, rischiando di abbandonare intere regioni già in difficoltà alla crescita dell’insicurezza alimentare.