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8 marzo: la forza delle donne ucraine

La comunità ucraina in Italia è la seconda per grandezza e anche la più regolarizzata: una grande parte sono donne, badanti soprattutto, occupate nelle case italiane, che stanno vivendo con il cuore e la testa in Ucraina, dove ci sono figli, nipoti, genitori anziani. Hanno dovuto lasciare le famiglie, a volte anche dei figli piccoli, per venire a guadagnare la vita per loro qui in mezzo a noi, per finanziare i loro studi. A volte i mariti sono in altri paesi europei e i figli in Ucraina. Si parla a questo proposito di “orfani bianchi”, ragazzi e ragazze che crescono con i nonni, e quando la madre torna una volta l’anno a volte non si ritrovano più, non si conoscono più.

Come badanti vivono nelle case degli anziani che curano, non hanno nemmeno la possibilità di fare un ricongiungimento famigliare. Ma essendo così strettamente a contatto con le famiglie italiane per cui prestano il loro lavoro di cura, la vicinanza italiana si è fatta sentire più viva. Quelle che sono partite ora sono in contatto telefonico con le famiglie italiane che vorrebbero aiutarle. Ma aiutare una sola persona non si fa senza portarsi dietro tutti i suoi legami, tutte le relazioni e gli affetti. Sradicate per lavoro, ora queste donne vengono anche sradicate dalla guerra che stravolge persino il volto delle città ucraine. Migrazione e guerra si intrecciano l’una all’altra per originare disperazione e perdita.

La nostra visione delle donne ucraine è molto segnata dallo stereotipo. La scossa della guerra ci fa capire che le donne dell’Est in Italia non sono “badanti per natura”. Il fatto è che la società italiana non è affatto pronta a riconoscere che le donne ucraine possano essere laureate e qualificate per altri lavori che non siano quelli domestici e di cura. Alcune sono riuscite solo dopo anni a far riconoscere i loro titoli di studio o a formarsi ulteriormente, trovando poi lavoro fuori dalla cura agli anziani. Qualche tempo fa si è cominciato a parlare della “sindrome Italia”, una forma di depressione o di esaurimento nervoso che coglie le donne che sono state a lungo badanti dei nostri anziani. «A nessuna di noi piaceva fare questo mestiere – dice Svitlana – anche perché nel nostro paese eravamo tutte abituate a ruoli e incarichi professionalmente di prestigio».

Ora la guerra ci ha rimandato immagini di case molto povere nelle campagne ucraine ma anche di città del tutto simili alle nostre: alcune, come Kiev, con architetture che sono patrimoni culturali Unesco. Arrivano alle frontiere dei paesi dell’Unione Europea centinaia di migliaia di donne con i bambini, donne che avevano scelto di restare nel loro paese e ora fuggono per proteggersi. Arrivano anche alle frontiere italiane i primi bus pieni di donne e bambini che fuggono dalla guerra. Aprire i cuori e aprire le case è quanto ci è chiesto ora.

Quanto conoscevamo l’Ucraina, prima di questa guerra? Le sue aspirazioni alla democrazia? Forse, parlando con le badanti nelle nostre case, ne avevamo scoperto la fede ortodossa. Ma ci sono anche donne luterane e evangeliche fra loro. Molte, tutte, sono scese in piazza in questi giorni, parlando la nostra lingua, chiedendo pace e indipendenza per l’Ucraina, cantando l’inno nazionale, chiedendo all’esercito russo di fermarsi in nome di relazioni di lunga data, sancite anche da matrimoni misti. 

Almeno questa guerra ci fa scoprire l’altra da noi, quella così vicina da vivere nelle nostre case, così lontana che non sappiamo immaginare la sua vita fuori dal servizio che ci rende. Uscire da relazioni strumentali ed entrare in relazioni più profonde; diventare vicine con empatia alla vita di donne che hanno il coraggio di vivere tra più mondi, di accettare gli unici lavori che la società italiana sembra offrire loro. Conoscere le aspirazioni e la forza di quelle badanti ce le fa riscoprire persone, rinforza i rapporti tra due paesi e la stima per le donne che insieme agli uomini, in Ucraina, stanno facendo resistenza attiva all’occupazione.