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Chiudete Guantanamo

Sono passati vent’anni, da quando i primi prigionieri arrivarono a Guantanamo. Era l’11 gennaio 2002, esattamente 4 mesi dopo l’attacco alle Torri gemelle, ed era cominciata la “guerra al terrore”: in quest’ottica era stato aperto un centro di detenzione per i sospetti terroristi nella basa navale Usa di Guantanamo, nell’omonima baia all’estremità sud-est di Cuba.

Considerati “combattenti illegali” dagli Usa, tutti cittadini stranieri (a parte un singolo caso di doppia cittadinanza), non potevano essere processati dalle corti federali americane e furono quindi rinchiusi in una struttura che paradossalmente, invece di essere un luogo per combattere il terrorismo, diventò un “incubatore” di terroristi.

In vent’anni, 780 persone sono state trattenute qui, con un picco massimo di circa 680 nel 2003; quasi nessuno ha mai subito un processo o ricevuto un’accusa formale.

La maggior parte è stata trasferita altrove ancora dall’amministrazione Bush, e circa 200 con Obama, che aveva già cercato di far chiudere la prigione, decisione poi invertita da Trump appena eletto, nel gennaio 2017. Sotto la sua presidenza un solo prigioniero ha lasciato la struttura, lo stesso numero, finora, per Biden.

La maggior parte sono stati trasferiti in altri paesi, in particolare quelli di provenienza (Afghanistan, Arabia Saudita, Yemen in primis), ma ne rimangono ancora 39, di cui 10 in attesa di processo, 7 trattenuti indefinitamente, 13 trattenuti nonostante il Governo Usa abbia già deciso il loro rilascio.

 

In questi vent’anni chiese e organizzazioni hanno più volte lanciato appelli e fatto pressione sul governo federale degli Stati Uniti per la chiusura del centro di detenzione, diventato simbolo di torture e ingiustizia, parlando di una continua violazione dei diritti umani, oltre a sottolineare i costi esorbitanti (13 milioni di dollari all’anno per ogni prigioniero), senza parlare dei costi sulla “reputazione” degli Usa, che lo stesso Bush riteneva superiori ai benefici.

Tra i sostenitori più impegnati, la National Religious Campaign Against Torture (Nrcat), organizzazione che riunisce più di 325 realtà religiose, dai bahai ai buddhisti, agli hindu, ai sikh, dai cattolici, ai protestanti, agli ortodossi, dagli ebrei ai musulmani. Come ha sottolineato (durante un incontro online organizzato dalla Chiesa episcopale degli Usa) Wells Dixon, avvocato del Centro per i diritti costituzionali di New York, che ha rappresentato i detenuti di Guantanamo nelle loro battaglie legali, «Guantanamo è fondamentalmente una prigione per uomini musulmani, e questo, per me, sottolinea davvero l’importanza di una advocacy basata sulla fede per forzarne la chiusura».

La Nrcat esorta i suoi sostenitori a scrivere ai membri del Congresso, ai giornali, sensibilizzare le comunità locali anche con eventi informativi, online o in presenza, organizzando veglie di preghiera o culti, fare delle raccolte firme, esporre striscioni.

L’attenzione è puntata sul presidente Biden, che si era impegnato a chiudere la prigione e porre fine a una detenzione ingiusta. Scrive la Nrcat sul suo sito Internet: «Abbiamo una possibilità concreta di andare finalmente oltre questo malaugurato capitolo della storia degli Stati Uniti, ma per farlo dobbiamo tenere il presidente Biden fermo sulla sua parola».

Nelle scorse settimane, il lavoro congiunto “dietro le quinte” di forze militari e dell’intelligence, avviato dall’amministrazione Biden sull’onda dalle pressioni dell’opinione pubblica e delle pesanti accuse legate alla violazione dei diritti umani, aveva concluso che più della metà degli attuali detenuti poteva essere rilasciata, condotta nei paesi d’origine o in altri paesi, dietro appositi accordi con essi. Si tratta comunque di un procedimento lungo, che potrebbe richiedere settimane o anche mesi. E purtroppo, i recenti avvenimenti in Ucraina hanno spostato l’attenzione ben lontano da quei 39 uomini.