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«Non abbiamo visto e non abbiamo capito. E anche per noi è tempo di confessione di peccato»

Nel fiume di informazioni, commenti e fake news sulla situazione in Ucraina, rischiamo di perdere di vista alcuni fatti essenziali.

Il primo è che la Russia ha aggredito l’Ucraina con un massiccio attacco militare che ha pochi precedenti nella storia recente. Putin ha mobilitato oltre 150.000 soldati che hanno aperto vari fronti e puntato  sulla capitale Kiev. La difesa delle popolazioni russe nella regione del Donbass o della Crimea – dal 2014  forzatamente annessa a Mosca – sembra aver perso ogni rilevanza simbolica e strategica. È stata un efficace pretesto per giustificare le esercitazioni militari e infiammare gli animi del nazionalismo russo e, a operazioni militari ormai avanzate, risulta evidente che l’obiettivo di Putin è assai più ambizioso: ristabilire l’egemonia di Mosca sull’intera Ucraina  imponendo a Kiev un regime fantoccio. L’esercito russo che vediamo in questi giorni, insomma,  non è quello che nel 1945 contribuiva a liberare l’Europa dal nazifascismo. Semmai richiama quello che nel  1956 interveniva in Ungheria e nel 1968 in Cecoslovacchia per soffocare movimenti di protesta democratica. La minaccia “nucleare”  e le parole di sfida alla Finlandia o alla Svezia danno la misura dell’eccezionale gravità del progetto di Putin. 

Il secondo fatto è che l’Ucraina è un paese sovrano, con pieno diritto all’autodeterminazione e alla sicurezza dei suoi confini. I piani della dominazione russa sul territorio hanno radici antiche: il regime zarista arrivò a vietare la lingua ucraina; la rivoluzione sovietica non modificò la sostanza di questa strategia di cancellazione dell’identità nazionale e sfruttò oltre ogni limite l’eccezionale capacità di produzione cerealicola di quel territorio. Tra il 1929 e il 1933 la collettivizzazione forzata delle terre produsse una drammatica carestia che ancora oggi la memoria popolare ricorda come una vera tragedia nazionale. A seguire, gli ucraini subirono la violenta reazione staliniana per il mancato raggiungimento degli obiettivi produttivi imposti dai piani di produzione sovietica. Furono gli anni di purghe e deportazioni che rafforzarono il sentimento antirusso e antisovietico. Nel 1990, crollata l’URSS, l’Ucraina dichiarò la propria indipendenza e nel 1991 si svolse un referendum che con una schiacciante maggioranza confermò quella decisione. Fu quel passaggio politico democratico a legittimare l’Ucraina come stato indipendente e sovrano, riconosciuto dalla comunità internazionale.  Infine, il presidente Zelensky, nel 2019 è stato eletto con il 73% dei voti. L’Ucraina non è, insomma, un’invenzione occidentale ma il prodotto di un processo di indipendenza e autodeterminazione. Può non piacere l’esito,  ma è evidente che il processo  non è reversibile.

Il terzo fatto è che l’Occidente non ha capito la portata degli eventi. Le mosse di Putin erano annunciate da tempo, almeno dal 2014 quando, senza che si registrassero particolari reazioni,  il presidente annesse la Crimea alla Russia. Pochi mesi dopo scoppiò la guerra del Donbass: denunciando violenze sulla popolazione russa della regione – maggioritaria rispetto alla componente ucraina – Putin incoraggiò un conflitto a bassa intensità che assunse  toni sempre più indipendentisti e nazionalisti, a febbraio di quest’anno culminati nell’ unilaterale dichiarazione di indipendenza dall’Ucraina delle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk, immediatamente riconosciuta da Mosca. Le mire russe su paesi dell’ex URSS, insomma, non erano segrete né malcelate. Ma l’Occidente, condizionato da eccezionali  interessi economici ed energetici, non ha voluto vedere ed ha preferito minimizzare la portata dei piani di Putin. Chi ha avuto occhi più attenti e vigili sono stati gli USA che, ben prima delle cancellerie europee, hanno lanciato un allarme forte e chiaro che non è stato colto. A guerra iniziata le cose stanno cambiando e, tra le poche buone notizie di questi giorni, vi è una ritrovata unità europea che indebolisce i sovranismi nazionali. L’altra buona notizia sono le proteste contro l’intervento militare in Ucraina che, a prezzo di repressione e arresti, si sono viste anche in Russia. 

Di fronte a questi fatti, è giusto e doveroso che il mondo chieda la pace. Ma la pace non è e non può significare  la resa dell’Ucraina, la sua cancellazione dalla mappa degli stati sovrani o la sua riduzione a provincia del nuovo impero putiniano. La pace cammina insieme alla giustizia, alla democrazia e ai diritti umani. Noi che chiediamo pace e preghiamo per essa non possiamo sottrarci alla responsabilità di distinguere tra aggressore ed aggredito. I governanti ucraini non sono dei santi ed anche loro hanno delle evidenti  mire geopolitiche, per quanto inattuali come l’adesione all’Unione europea o azzardate e destabilizzanti come l’avvicinamento alla Nato. Il nazionalismo ucraino non ha voluto considerare un’altra strada, più realistica e sostenibile come quella della neutralità “alla finlandese”.  Ma di fronte all’attacco queste sono speculazioni inattuali: oggi il tema centrale è il diritto degli ucraini a difendere la loro sovranità e il dovere dell’Occidente di sostenerlo. E di accogliere le migliaia di profughi che già si ammassano in Polonia e in altri paesi.

Anche chi di noi ha pensato che la guerra campale e di occupazione appartenesse a un mondo finito nel 1945 e che la fine della guerra fredda avrebbe generato un nuovo ordine mondiale di pace e prosperità. Non abbiamo visto e non abbiamo capito. E anche per noi è tempo di confessione di peccato.