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Chi sa far ridere ci interpreta meglio

Più che mai nella “settimana di Sanremo” verifichiamo come la coesistenza degli opposti sia alla base di molti prodotti dell’industria culturale e popolare: il sorriso e la malinconia, il dramma sociale dei migranti e i rischi di atteggiamenti blasfemi; la canzone melodica e le forme più aggressive del sound contemporaneo. Figuriamoci quando un’attrice o un attore incarna due modalità apparentemente contraddittorie fra loro, nel caso di Monica Vitti il tono drammatico del cinema “impegnato” e la commedia.

Però, in questo caso, la verità non sta nel mezzo, anzi: la verità sta proprio nell’accostamento, che a prima vista parrebbe impraticabile, dei due “registri”. Così Monica Vitti, scomparsa ieri all’età di 90 anni, è stata l’interprete in grado di dare corpo e voce a personaggi da commedia, in particolare nella commedia all’italiana, nelle versioni più raffinate ma anche in ruoli più “sbracati”, intendendo con il termine una certa libertà di linguaggio, di vicende, di toni (chi non ricorda Polvere di stelle, diretto da Alberto Sordi nel 1973, con la celebre canzone «Ma ‘ndo vai…?»). Ebbene, intanto va detto che generalmente la commedia all’italiana presuppone nei suoi esiti migliori un sottofondo del tutto serio, spesso drammatico, malinconico anche; si può ridere, ma ridiamo per gli sforzi di inventiva che contraddistinse i nostri e le nostre concittadine in vicende tragiche, o negli anni drammatici della guerra (si veda ancora, sempre con A. Sordi, Tutti a casa). Intorno a loro c’era il dramma.

Ecco allora che si affaccia una profonda verità, che riguarda il cinema ma anche il teatro, e se vogliamo anche la televisione: l’attore comico o l’attrice comica spesso riescono a fornire grandi prove anche in ruoli drammatici. Più difficile, molto più difficile, che si verifichi il caso inverso. L’attore comico, o l’attrice, ha qualcosa in più. Chi ha la sensibilità di cogliere gli aspetti ridicoli e grotteschi della realtà e delle vicende che ci circondano, ha dalla sua una capacità di lettura analitica della realtà che altri non hanno. Non a caso molti bravi comici sono anche registi e sceneggiatori, fin dai tempi di Charlie Chaplin. Non solo, l’arte della commedia, a partire da quella settecentesca, si basa in modo implacabile sul ritmo, sulla velocità: un secondo di troppo, in uno sguardo, può togliere mordente alla scena. Trasferito in sede drammatica, questo controllo serratissimo, a cui i comici sono avvezzi, permette di raggiungere livelli di intensità sconosciuti ad altri. Monica Vitti era una di queste persone. Il fatto che avesse praticato il teatro “classico” prima della commedia al cinema nulla toglie alla sua sensibilità.

Nel campo drammatico la sua attività è inscindibilmente legata ai film migliori di Michelangelo Antonioni, L’avventura (1960), L’eclisse (1962), Deserto rosso (1964): sono gli anni in cui nei cineforum impazzano i film d’autore, di quegli autori spesso legati a interpreti/icone (Max von Sydow, Gunnar Björnstrand, Ingrid Thulin per Ingmar Bergman; Anna Karina e Anne Wiazemsky per Jean-Luc Godard; Jean-Pierre Léaud per Truffaut, ma anche Giulietta Masina per Fellini e, nei primissimi film, Anna Magnani per Pasolini), veri e propri portavoce delle idee del regista; e poi quelli sono gli anni in cui infuria il dibattito sull’incomunicabilità, affrontato sotto vari aspetti: Bergman ha una visione basata sugli assi cartesiani della difficoltà a comunicare “verticalmente” con Dio e orizzontalmente con gli altri e le altre, che si tratti di rapporti di coppia o fra genitori e figli. Antonioni prende di petto, invece, la solitudine e la ricerca di un sé smarrito come conseguenze (anche) di nuove relazioni economiche e sociali, in un mondo della produzione che sconvolge le coordinate di un tempo – nello stesso decennio, i romanzi di Paolo Volponi si muovevano su un terreno molto vicino. Monica Vitti sapeva rappresentare questo disagio, prossimo a diventare patologia, con toni autentici anche in situazioni molto “costruite” (la celebre battuta in Deserto rosso, usata e abusata per dileggiare il film: «Mi fanno male i capelli…»). Poi, il tempo è passato, le tematiche in questione, lungi dall’aver fornito le possibili risposte a domande destinate a essere inevase, hanno lasciato il passo ad altre: la ricerca di Dio, forse un po’ astratta all’epoca, si è ritirata; l’incomunicabilità fra le persone si è spostata sul difficile dialogo fra culture e sull’ancor più teso dialogo fra le generazioni.

Capace di essere “caciarona” se rappresentava un’attrice di varietà, Monica Vitti, voce straordinaria, era ancor più forte nei silenzi. Una lunga stagione artistica, la sua, come è stata lunga quella dei più importanti registi con cui ha lavorato (Mario Monicelli ma anche Joseph Losey, Citto Maselli, Ettore Scola e Miklos Jancso, altro autore cult nei cineforum, Luis Buñuel): echi di un cinema che interpretava in profondità la contemporaneità, con tragicità ma anche con un distacco critico che forse non ritornerà più.

 

Foto di Rossano aka Bud Care