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Giorno della Memoria: perché occorre preservare la sua unicità

In un’Italia che ha lasciato cadere quasi completamente le occasioni comuni di celebrazione civile, non ricordando più né il 2 giugno, né il 4 novembre e sempre meno anche il 1° maggio e il 25 aprile, il Giorno della Memoria resta un’occasione di pedagogia collettiva e impegno morale. È un dato di fatto, però, che proprio il suo successo, la grande quantità di eventi nelle scuole e nelle città, di articoli sui giornali e sui media, di prese di posizione politiche, ha creato intorno alla ricorrenza un clima di insoddisfazione e talvolta di aperto fastidio. Le si rimprovera da un lato di essere spesso retorica, formale, inutile, ma anche dall’altro, da parte di alcuni, di essere unilaterale, non sufficientemente inclusiva, insomma parziale.

Coloro che avanzano quest’ultima critica spesso lo fanno proponendo una generalizzazione del “Giorno”, che includa anche altri eventi, dai genocidi veri e propri come quelli subito da armeni e Tutsi, a forme di sfruttamento molto grave come quelle prodotte in Africa dal colonialismo europeo e dallo schiavismo o all’esproprio degli indigeni in America, in Australia e altrove. C’è addirittura chi ha proposto di estendere la giornata alle vittime di disastri naturali come Covid e terremoti. E purtroppo non mancano le proposte di rovesciare completamente il senso del ricordo, scegliendo i palestinesi come nuovi soggetti da commemorare e trascinando gli ebrei sul banco degli accusati, perché essi sarebbero ora “come i nazisti”.

Non vale nemmeno di discutere queste ultime critiche, particolarmente oltraggiose perché redistribuiscono il ruolo di vittima alla parte politica che fu intimamente legata e sostenitrice dei carnefici al tempo della Shoà e ancora oggi pratica un continuo terrorismo e la minaccia di un nuovo genocidio ai danni degli ebrei. Ma per gli altri ricordi che si dice di voler preservare bisogna dire che ci sono già delle date significative adottate: il 24 aprile per il genocidio armeno, il 7 aprile per quello dei Tutsi, il 23 agosto per il commercio degli schiavi, il 9 dicembre per i genocidi in generale (data stabilita dall’Onu) e in Italia anche il 10 febbraio per il Giorno del ricordo delle foibe, e il 9 maggio per le vittime del terrorismo. Il fatto che queste date memoriali siano distinte fra loro, che corrisponde peraltro alla molteplicità delle feste nazionali e di quelle religiose, risponde all’esigenza di ricordare circostanze precise che le motivino, ma soprattutto al fatto che la memoria ha senso quando è circostanziata, precisa, se serve insomma a chiarire al pubblico gli eventi che si intendono ricordare, le loro cause precise, vicine e remote, le responsabilità di mandanti, esecutori e astanti. 

Se invece si affollano storie diverse sulla stessa celebrazione, il rischio quasi sicuro è di perdere ogni specificità, di rinunciare a una comprensione non superficiale di fatti così eterogenei, finendo insomma col deplorare solo la malvagità che fa parte della natura umana o addirittura la sorte avversa, facendo così rifluire l’impegno di chi vi partecipa alla naturale e certamente buona solidarietà per chiunque ne sia stato vittima. Ma la proposta di “generalizzare” la memoria non è stata avanzata per tutte le altre date, solo per il Giorno della Memoria della Shoà e questa specificità va letta con attenzione. Anche perché essa si congiunge con l’antisemitismo (e prima l’antigiudaismo) che è stato larghissimamente praticato e teorizzato in Europa e nel mondo islamico da moltissimi secoli. E naturalmente una scelta del genere finirebbe col dare soddisfazione al negazionismo della Shoà che di solito non si presenta nella forma estrema di negare assolutamente che vi siano state stragi e persecuzioni e morti numerose, ma punta piuttosto a relativizzarle sul piano numerico («non sono stati sei milioni ma tre, due, qualche centinaio di migliaia»), come su quello qualitativo («è sempre accaduto così, è la guerra», ecc.).

Il Giorno della memoria, come si legge nei suoi documenti istitutivi, è stato introdotto proprio per contrastare questo negazionismo e riaffermare l’unicità della Shoà, che non significa naturalmente la sua incommensurabilità con altri genocidi e anche con la lunghissima storia delle stragi e persecuzioni antisemite. Si è sentita però a un certo punto la necessità di sottolineare come nel cuore della civilissima Europa, nell’epoca del suo grande sviluppo tecnico, non fra tribù senza Stato o fra imperi primitivi ma in un momento in cui l’organizzazione statale e culturale aveva raggiunto un grande livello di sviluppo, milioni di uomini donne e bambini sono stati sterminati industrialmente sotto il controllo dello Stato, con un piano logistico dettagliato, non per qualcosa che avessero fatto o scelto, ma per ciò che erano, per la religione, il popolo e la cultura in cui erano nati. Uccisi in massa perché ebrei. Questa è l’unicità della Shoà e il suo insegnamento: la barbarie più atroce può sorge in mezzo a popoli e istituzioni civili ed avanzate.

Il punto decisivo del processo che ha portato al Giorno della Memoria è stata una dichiarazione firmata a Stoccolma dai rappresentanti di quarantaquattro governi di tutto il mondo, che divenne il documento fondatore dell’International Holocaust Remembrance Alliance – Irha. Si tratta della stessa Irha cui si deve la definizione di antisemitismo più importante e più contrastata dei nostri giorni, quella che riconosce come esempio tipico di antisemitismo la negazione dei diritti nazionali del popolo ebraico e cioè la delegittimazione dello Stato di Israele e il tentativo di distruggerlo. Dato che vi sono forze potenti impegnate in questo senso, nel mondo musulmano ma anche in parti politiche europee e americane, forse anche per questo il Giorno della Memoria è stato oggetto di diffamazione, proposte di annacquamento, abusi vari del suo senso. E questa è la ragione per cui ho ritenuto necessario scrivere un libro per difenderne l’integrità e la continuità.

 

Foto di Samuele Revel