istock-544316202

Due simboli per scommettere ancora una volta sul sogno ecumenico

Inutile girarci attorno: il clima depressivo che attanaglia questa società impaurita si estende anche al cammino ecumenico che le chiese cristiane stanno faticosamente compiendo. La passione per l’unità visibile dei cristiani è tenuta in vita dagli “ultimi moicani” del sogno ecumenico. Fuori dalla riserva, indifferenza o al più una blanda curiosità – quella delle gite scolastiche, che dura giusto il tempo della settimana in cui si sospende il programma abituale.

Quest’ultimo lo decide autonomamente ogni istituto, felice di differenziarsi dagli altri, non così all’avanguardia da risultare interessanti. In quella settimana è diverso: si moltiplicano gli incontri, si mostra interesse per l’altro. Poi, una volta sul pullman di ritorno, i commenti sottolineano l’impossibilità di vivere alla maniera dell’altro, l’esoticità dei suoi gesti, la ristrettezza dei suoi orizzonti. Insieme a una nota di simpatia: non ci hanno trattati, poi, così male. Forse, nel resto dell’anno, ci saranno altre – poche – occasioni in cui l’altra chiesa farà di nuovo capolino, suscitando per un attimo una medesima curiosità e lo stesso diniego, senza intaccare il bon ton ecumenico delle dichiarazioni ufficiali. 

Certo, qualcuno griderà che non dobbiamo svendere il nostro patrimonio, che dialogo non significa ignoranza delle ragioni della differenza, che la melassa ecumenica è segno di decadenza. La maggior parte, però, non coglierà nemmeno il problema: beghe di altri tempi, di cui sfugge praticamente tutto, da lasciare ai don Ferrante della teologia. E chi non demorde nel perseguire la riconciliazione delle differenze proverà a inserire la sua voce – di silenzio un po’ troppo sottile! – e a ricordare gli enormi passi in avanti fatti negli ultimi decenni, indicando i guadagni di quel faticoso ma ricco confronto. Che, però, effettivamente, non riesce ad andare al di là di gesti simbolici, di documenti e dichiarazioni senza grosse conseguenze.

A eccezione di alcuni acuti, la melodia ecumenica risuona piatta, flebile. E non perché manchino le ragioni reali per perseguire il dialogo, così da giustificare il fatto che le chiese mollino il colpo. Anzi, le ragioni per scommettere sull’ecumenismo si fanno sempre più forti, in un contesto sociale frantumato, ridotto a tifoserie opposte, con le chiese che sono tentate, a loro volta, di sposare questa logica autoreferenziale, pronte a gridare la propria verità e a denigrare quelle altrui. L’ecumenismo si presta a essere un interessante laboratorio per mettere a punto modelli di convivenza tra diversi e per liberare le chiese dalla deriva apologetico-polemica così da ritrovare la strada della conversione evangelica, impossibilitata dall’atteggiamento difensivo, troppo contiguo ai farisei delle narrazioni evangeliche.

Dunque, che fare? Come affrontare questo nostro tempo in cui l’urgenza dell’ecumenismo si scontra con un generalizzato disinteresse dei credenti, ridotto alla stanca ripetizione di eventi occasionali? Non è domanda da risposta individuale. È interrogativo che chiama in causa le chiese, a partire dalle nostre. E per tenere vive l’attenzione e la tensione ecumenica, possono aiutarci due scene evangeliche. Quella del fico senza frutti (Luca 13, 6-9): soprattutto oggi, in un mondo che vuole risultati, utili immediati, una realtà incapace di produrli va tagliata, così da lasciar spazio ad altre iniziative più produttive. Senonché la parabola evangelica, coerentemente a tutte le Scritture, evoca la possibilità di una seconda volta: «Signore, lascialo ancora quest’anno; gli zapperò intorno e gli metterò del concime. Forse darà frutto in avvenire; se no, lo taglierai». Il progetto ecumenico può avere una seconda volta, ma questa dipende dalla tenacia con cui ci si mette in gioco, spendendosi per quel progetto indipendentemente dal risultato. Nella storia, lo sappiamo bene, il “forse” del risultato rimane ineliminabile.

La seconda scena ci è suggerita dai cristiani del Medioriente, che per la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani di quest’anno hanno scelto la parola dei Magi: «In Oriente abbiamo visto apparire la sua stella e siamo venuti qui per onorarlo» (Matteo 2, 2). Quello sguardo che non si appropria della luce ma mette in ricerca, sollecita il cammino – un cammino comunitario, non individuale – è la condizione per incontrare il Cristo, per lasciarsi orientare dalla sua stella. La posta in gioco dell’ecumenismo è niente di meno che la riscoperta della fede, di quella parola evangelica che non ci rende padroni della verità ma sue discepole e discepoli. 

Il fico e la stella: due simboli che ci fanno pensare e che ci sollecitano a scommettere di nuovo, con ostinazione, sul sogno ecumenico.