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Liberi di non poter comunicare

Un rapporto redatto da Reporters sans frontières denuncia una forte censura in Cina. Dopo le intimidazioni e gli arresti la nuova frontiera è «la censura via software, app e siti web».  A ricordarlo è il giornalista esperto di tecnologie digitali e web Arturo Di Corinto che cura una rubrica su il manifesto dal titolo Hacker’s Dictionary.

A pochi giorni di distanza due fatti gravi: Stand News, giornale indipendente che annuncia la sua chiusura a seguito dell’arresto di sei membri del suo staff. Poi, Citizen News di Hong Kong, chiude per paura, perché le pressioni governative non permettono di potere lavorare serenamente.

«Per questo motivo – ricorda Di Corinto –, dopo aver sollecitato il rilascio della giornalista cinese Zhang Zhan, condannata a quattro anni di carcere per aver coperto la pandemia di Covid-19, Reporters sans frontières (Rsf) chiede il rilascio di tutti i giornalisti detenuti e invita le democrazie a reagire e difendere ciò che resta della stampa libera in Cina».

Nella prefazione di 82 pagine del Rapporto, Christophe Delorie, segretario generale di Rsf, racconta nel dettaglio il modello di censura cinese, un modello «terrificante – dice Di Corinto –, dato che il regime ha immense risorse finanziarie e tecnologiche per raggiungere i suoi obiettivi. Il “Great Firewall”, tiene il miliardo di utenti Internet cinesi lontano dal mondo, mentre un esercito di censori controlla la messaggistica privata, alla ricerca di presunti contenuti sovversivi. Nel prossimo futuro, l’ubiquità delle tecnologie di sorveglianza basate su riconoscimento facciale, intelligenza artificiale e credito sociale, minaccia di rendere illusoria la riservatezza delle fonti dei giornalisti».

Il Rapporto di Rsf evidenzia altri dati allarmanti: sono 127 giornalisti detenuti in Cina e descrive la Nazione come «la più grande prigione per giornalisti del mondo». 

Nel 2021, infatti, Rsf World Press Freedom Index in tema di libertà di stampa, colloca la Cina al 177° posto su una classifica di 180 luoghi del mondo analizzati, dunque, solo due punti sopra la Corea del Nord. 

«“Sorveglianza residenziale” in un luogo designato – prosegue Di Corinto – è l’eufemismo usato dal regime cinese per la detenzione arbitraria di dissidenti e giornalisti indipendenti, nelle cosiddette “prigioni nere”, una rete di centri di detenzione extralegali istituita in tutta la nazione». 

L’articolata analisi di Di Corinto, ripresa anche dal sito Articolo 21, ricorda alcuni snodi chiave: il l Grande Firewall «è un sistema di blocco dei contenuti utilizzato per impedire alle «informazioni sensibili di entrare nella rete cinese e che gli occhi indiscreti di Internet sono una tecnologia di sorveglianza utilizzata per monitorare le chat di gruppo e i messaggi privati attraverso le piattaforme di social media nazionali; e ancora che l’applicazione (App) “Studia Xi, rafforza la nazione” dal 2019 è stata imposta ai giornalisti e consente alla polizia di eseguire comandi e raccogliere informazioni personali all’insaputa dell’utente».

Nel mondo la situazione non sembra essere tanto diversa: sono 488 i giornalisti reclusi a causa del loro lavoro. Mai così tanti dal 2016 ad oggi. 

E poi, sono passati ormai mille i giorni di detenzione per Julian Assange, rinchiuso nel penitenziario londinese di Belmarsh dall’11 aprile del 2019

Il 4 gennaio scorso nel mondo e in Italia, si è voluto ricordare anche l’anno esatto dalla sentenza di primo grado rifiutò l’estradizione di Assange negli Stati Uniti per ragioni umanitarie. Il mese scorso, però, l’Alta Corte di Londra ha dato il via libera ribaltando la sentenza di primo grado del giudice britannico, che aveva negato l’estradizione del co-fondatore di Wikileaks negli Stati Uniti, per il rischio di un possibile suicidio.

Tre giorni fa, il 4 gennaio, a Roma, Torino e Reggio Emilia alcuni cittadini sono dunque scesi in piazza per chiedere la liberazione del giornalista. Il 3 gennaio il Presidente messicano Obrador aveva nuovamente rinnovato la sua offerta d’asilo al giornalista.

Una sentenza, quella di Assange, che ci riguarda tutte e tutti: «Se perde WikiLeaks – ricorda l’esperto di media Vincenzo Vita su Articolo 21 –, esce sconfitta completamente la libertà di informazione. Sarebbe un precedente gravissimo: la verità sulle guerre, d’ora in poi, sarà solo quella del potere. Talvolta capita che un accidente dia l’idea della sostanza. Un episodio, come una sineddoche, disegna i colori del quadro. È il caso della ormai annosa «serie» di Julian Assange, nella quale il cattivo a giudizio è ben più buono dei suoi inquirenti multiformi. Venuti dalla Svezia o dalla Gran Bretagna o dagli States. I veri cattivi. I colpevoli a piede libero. Purtroppo, siamo di fronte ad una sequenza drammatica, che ricorda da vicino l’affare Dreyfus o le iniziative repressive tipiche degli universi autoritari: dall’Egitto, all’Arabia Saudita, alla Polonia, all’Ungheria. Per citare luoghi di avvenimenti tristi e recenti».

Assange, oggi cinquantenne, è accusato negli Stati Uniti di aver cospirato (insieme all’ex analista dell’intelligence militare Edward Manning) e divulgato migliaia di documenti riservati sulle operazioni militari americane avvenute nel 2010.

La libertà di stampa è vitale, necessaria, anche in Italia la situazione purtroppo non rosea e vede il nostro paese al 41° posto nella classifica mondiale

A dirlo è sempre Rsf: «Una ventina di giornalisti italiani sono attualmente protetti 24 ore su 24 dalla polizia a causa delle intimidazioni, minacce di morte e aggressioni a cui sono stati sottoposti, soprattutto da parte di organizzazioni criminali e reti mafiose. Continua a crescere il livello di violenza contro i cronisti, soprattutto a Roma e dintorni, e al sud. A Roma, giornalisti sono stati aggrediti fisicamente nel corso del loro lavoro da membri di gruppi neofascisti e aggrediti verbalmente durante manifestazioni […]».