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La normalità che cerchiamo e la normalità della fede

Un anno fa avevamo intorno a noi ben pochi segnali di normalità, stretti come eravamo dalle restrizioni anti-Covid. Oggi la situazione è diversa: non viviamo come alla fine del 2020 e siamo – per ora – relativamente aperti alle attività sociali, pur con la minaccia di nuove forme di diffusione del virus. E tuttavia viene da chiedersi: che cos’è la normalità alla quale ognuno e ognuna di noi aspira e che chiunque vorrebbe veder consolidare nell’anno a venire?

Possiamo considerare “normalità” i tanti, troppi eventi tragici, che hanno dei colpevoli e delle responsabilità, solo per il fatto che essi si riproducono con un cadenzamento implacabile? È normalità l’ennesima strage sul lavoro (a Torino pochi giorni fa l’ultimo caso); sono normalità le violenze sulle donne, ancora e sempre per opera di mariti, ex-mariti, ex-conviventi? O le stragi in mare, i barconi, i minori che arrivano soli, l’ultimo dei quali ha un anno di età? Normalità non può essere ciò a cui ci abituiamo per rassegnazione, considerandolo ineluttabile.

Certo, ci sono anche eventi di altro segno: le mobilitazioni, soprattutto giovanili, in materia ambientale, hanno il merito di costringere le generazioni precedenti a interrogarsi con loro; un recente sciopero ha riportato all’attenzione generale i problemi sociali e al tempo stesso ha spiegato agli ultras no-pass che manifestare civilmente si può, senza rendersi pericolosi agli altri in nome di una equivoca idea di libertà, astratta, personale e totalizzante. Un lungo elenco di scienziati e Premi Nobel chiede di limitare la spesa militare per meglio provvedere alle necessità delle persone e del pianeta.

In questa cornice, le chiese hanno per il secondo anno sperimentato modalità tecnologiche per poter lodare il Signore e studiare la sua Parola, allentandone l’uso man mano che ridiventava possibile, con cautela, la presenza diretta ai culti; si sono avuti gli esperimenti di Conferenze distrettuali e Sinodo in formula mista. Resta la necessità di coinvolgere comunitariamente chi non può valersi di queste tecnologie, che comunque… non sono la stessa cosa della presenza. Quindi siamo alla ricerca di una “nuova normalità”: non sappiamo ancora bene come sarà fatta, ma sappiamo che ci chiede di essere responsabili e fedeli alla Parola.

Essere responsabili significa praticare il discernimento: nella pandemia chi è chiamato a decidere, deve decidere, e una volta deciso si va avanti, perché il virus non propone emendamenti, tira diritto contro tutti e tutte. Ma discernere, per i cristiani significa osservare la realtà disponendosi a riconoscere in tutti e tutte la comune umanità a cui apparteniamo, anche quando ci sembra che le scelte altrui siano pericolose. 

E soprattutto essere responsabili, in quanto credenti, significa essere pronti a sottoporre a giudizio ogni nostra scelta. Non possiamo permetterci di «dire “Dio nostro” all’opera delle nostre mani» (Osea 14, 3). Nella consapevolezza che colui che ci convoca è fedele alle sue promesse, dobbiamo ricordarci che le nostre scelte – anche quelle che dal punto di vista della convivenza civile sappiamo essere giuste (come la necessità di vaccinarsi) – sono “nostre” e ne risponderemo noi, non Dio; sono il tentativo, che facciamo ogni giorno, di vivere sotto il suo sguardo, arrabattandoci con i mezzi che abbiamo e con il coraggio che abbiamo. L’esercizio di un dovere civico, pure importante, non basta. La pratica della responsabilità dovrà essere accompagnata da uno slancio di testimonianza, fatto di riconoscenza e di fiducia, che ci permetta di rendere conto della speranza cristiana. Questa consapevolezza non deve spaventare («Chi vi farà del male, se siete zelanti nel bene?» – I Pietro 3, 13). È questa la normalità che dobbiamo cercare, scoprire ogni giorno e mantenere salda.