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Vittime di tratta. Ricorso contro Italia e Libia

Il 16 dicembre gli avvocati dell’ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) e di NULAI – Network di cliniche legali nigeriane, hanno presentato in una conferenza stampa il ricorso che due ragazze portano con il loro sostegno al Comitato per l’eliminazione delle discriminazioni contro le donne delle Nazioni Unite (CEDAW). Princess e Doris (due nomi di fantasia) intendono porre di fronte al Comitato l’Italia e la Libia, perché sostengono che la loro terribile storia sia una diretta conseguenza delle politiche migratorie dei due paesi.

Ne ha parlato su RBE Adelaide Massimi, Project Officer dei progetti di ASGI Sciabaca e Orukaintervistata nella trasmissione Cominciamo Bene.

Il CEDAW è un organismo composto da esperti indipendenti che monitorano l’attuazione della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna, risalente al 1979. Per questo lo si vuole coinvolgere nel caso delle due donne, le cui vicissitudini sarebbero legate saldamente agli effetti del memorandum tra Italia e Libia; l’obiettivo dell’intesa attiva dal 2017 è di coinvolgere la Libia nel contenimento dei migranti, in modo che non raggiungano le coste italiane e quindi di fatto esternalizzando in territorio africano la frontiera italiana. Nonostante l’alternanza di governi in Italia e l’estrema instabilità del paese africano, la collaborazione è rimasta attiva negli anni, attirandosi numerose critiche per le condizioni disumane e criminali con cui vengono trattenuti i migranti in Libia, visto il filo diretto che si può tracciare tra i fondi italiani e i centri di detenzioni libici.

Le due ricorrenti, vittime di tratta, erano state portate a forza fuori dalla Nigeria, racconta Massimi. Sono state poi vendute e comprate più volte, abusate a lungo e torturate, per poi essere riportate in Nigeria tramite quelli che vengono considerati rimpatri volontari (finanziati principalmente dall’Unione Europea). Secondo gli avvocati, queste dinamiche di sfruttamento sono rafforzate dal blocco delle partenze dalla Libia e da ciò che è seguito al memorandum, soprattutto per quanto riguarda i finanziamenti che ogni anno sono stanziati dall’Italia verso entità libiche molto discusse (come la cosiddetta guardia costiera libica). Da qui, secondo molti osservatori internazionali, emergono le detenzioni arbitrarie di cittadini stranieri in suolo libico e il loro trattamento disumano.

Libia e Italia, precisa Massimi, sono quindi accusate di due violazioni della Convenzione del 1979: il diritto a non essere discriminate e il diritto a non essere ridotte in schiavitù. Le autorità libiche, nel momento in cui hanno scoperto che queste donne erano vittime di tratta, non solo non le hanno aiutate ma si sono rese responsabili della loro riduzione in schiavitù. Il rimpatrio è stato l’unico strumento che ha permesso alle donne di sottrarsi a quella situazione, ma le due donne si trovano ora nuovamente in un paese che le espone a diventare ancora vittime di tratta.

Quello che gli avvocati e le associazioni coinvolte sperano è che il caso possa avere una rilevanza più ampia, rispetto alla singola istanza, facendo quindi da “precedente” rispetto a casi futuri. Negli ultimi anni ci sono state sentenze che poi non sono state attuate pienamente; ora si cerca di individuare le responsabilità politiche che stanno dietro a fenomeni che altrimenti rischiano di apparire naturali, come le torture in Libia e i viaggi per mare. Invece non c’è nulla di naturale: le scelte politiche, che si tratti di singoli accordi o di decisioni più ampie, hanno un impatto molto pesante nell’indirizzare i vari contesti. Secondo i ricorrenti, le responsabilità sono in capo all’Italia e ai paesi europei.

Il percorso è appena iniziato: il caso è ancora nella fase di ammissibilità, ovvero si attende che il CEDAW valuti la validità del caso. L’attesa mediatica è vicina allo zero, ma l’esito potrebbe essere importante.

 

Foto di Chiara Baldassarri