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I pastori e la solitudine di Jack, “figliol prodigo” della letteratura

La familiarità che abbiamo con i precedenti romanzi di Marilynne Robinson (Sandpoint, Idaho, 1943), finora tutti tradotti in italiano, permette di accostarsi senza difficoltà al personaggio centrale, Jack come recita il titolo, dell’ultimo uscito anche in Italia*. Figlio del pastore presbiteriano Boughton, ha condotto sempre una vita dissoluta, pur essendo dotato intellettualmente e emotivamente: è buono nel fondo dell’animo, ma si è lasciato tirare dal lato debole, forse troppo buono del proprio carattere. Piuttosto solitario e malinconico, incline all’alcol ma solo ogni tanto, è abile a trovare lavori di fortuna e altrettanto predisposto a perderli.

Nei precedenti Gilead (2008) e Casa (2011), con gli stessi personaggi, la sua figura è una sorta di “figliol prodigo” che bene illustra la parabola del padre misericordioso. A un certo punto della sua esistenza, infatti, ritorna a casa, si occupa del padre, nel incontra il collega (che invece è pastore congregazionalista). Ma non riesce a scrollarsi di dosso le emozioni che lo attanagliano. Ora lo troviamo a St. Louis (Missouri), dove ha conosciuto Della, un’insegnante di colore, figlia a sua volta di un pastore (questa volta metodista): i due passano una notte a discutere nella incongrua location di un cimitero, si piacciono ma si rendono conto dell’impossibilità di una relazione a quell’epoca impossibile per i canoni vigenti in entrambe le comunità etniche, come spiega un altro pastore battista (come gli altri viene definito in traduzione “ministro del culto”), nella cui parrocchia Jack va a mangiare la domenica.

A parte il quadro interdenominazionale (che può disorientare chi non sia abituato, tanto che una recensione su un quotidiano italiano definisce “battista” il padre di Della, che invece, come dice più volte il racconto, e perfino il risvolto di copertina, è metodista), ancora una volta un romanzo di Marilynne Robinson segue le vicende umane, umanissime dei suoi personaggi con un occhio e una mentalità formati nel solco di una grande consapevolezza biblica. Non solo se ne scorge traccia nei calchi quasi letterali: diretti, come quando Jack dice a Della: «Beh, si spera nelle cose che non si vedono» (p. 49), «non ci sarebbero stati più pianti e arrotar di denti» (p. 271) oppure “allusivi”, come il riferimento alle difficoltà del giovane Jack: «Il suo carico non era così cospicuo…» (Mt 11, 30 – p. 260). Ma soprattutto il fluire del racconto, pacato e meditativo anche quando le circostanze sembrerebbero autorizzare maggiore enfasi, ci fa pensare a una coscienza biblica profonda e molto sedimentata. Che dà il tono, l’impronta, l’autorevolezza. 

I miracoli, ricorda Jack di aver sentito dire dal padre nel corso di un sermone, «non lasciano tracce». Essi «accadevano una volta sola, come una specie di commentario sulla limitatezza e insufficienza della realtà in cui si intromettono» (pp. 225-226), ed è proprio così: si può anche non crederci, ma il loro racconto può lasciare qualcosa a chiunque. Il rapporto mancato con il padre, ma non per sempre, sofferto ma pieno di affetto ritorna a più riprese anche negli altri romanzi. E fa il paio con le altre apparenti contraddizioni che vive il credente o il quasi-credente: «la vergogna ha delle caratteristiche in comune con certe cose supreme, l’infinità, l’eternità…» (p. 245). L’alto e il basso, la fede e la dissolutezza fanno parte di noi. Poi le persone prendono la loro strada: qualcuno la chiama destino, altri ci vedono l’impronta di qualcuno che gli tiene una mano sulla testa. Tutti insieme, in un microcosmo fatto di pochi personaggi e di una grande capacità lirica, ci mostrano la nostra debolezza e la speranza che una visione di fede faccia breccia e si rinnovi nelle nostre esistenze. Il romanzo non ci spiega che cosa sia la grazia, ma ci dice che essa può cambiare la vita delle persone.

M. Robinson, Jack. Traduzione di Eva Kampmann, Torino, Einaudi, 2021, pp. 321, euro 20,00.

 

Immagine: Marilynne Robinson, fotografata in occasione del Salone del Libro di Torino 2016 da Paola Schellenbaum