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La COP26 si conclude con timidezza

 

Non si può dire che la COP26 sia stata un totale fallimento. Il che non vuol affatto dire che sia stata un successo.

I lavori del 26esimo summit internazionale sul clima si sono chiusi sabato sera a Glasgow con la pubblicazione del documento conclusivo, frutto del lavoro su un testo di cui erano già state rese note le bozze preliminari nei giorni precedenti. Nel testo finale ci sono alti e bassi. Tutti i paesi partecipanti si impegnano a rafforzare gli impegni per la riduzione di gas serra entro il “checkpoint” del 2030, siglando inoltre l’intenzione di rivederli ogni anno e non ogni cinque, come era previsto finora. Alok Sharma, il presidente della COP, dichiara che così si “tiene vivo” l’obiettivo di mantenere entro 1,5 gradi l’aumento medio di temperature entro la fine del secolo, ma nel frattempo viene già fatto notare che, contrariamente a quanto emerso la scorsa settimana, le nuove promesse climatiche non garantiranno un aumento inferiore a 2.4 gradi.

Lo stesso Sharma non ha nascosto la sua delusione riguardo agli esiti della conferenza, specie per quanto riguarda gli impegni “mancati” di Cina e India; i rappresentanti di quest’ultima sarebbero i responsabili di un cruciale cambio di testo rispetto alle bozze: non si parla più di “phase out” (eliminare gradualmente) l’uso del carbone, bensì di “phase down” (diminuire gradualmente). D’altro canto, come sottolinea John Kerry, inviato speciale per il clima statunitense, è la prima volta che i testi finali delle COP citano apertamente il carbone, il più inquinante tra i combustibili fossili, perciò bisognerebbe parlare di un almeno moderato successo.

Occorre far notare che, sebbene la Cina sia al primo posto per emissioni totali di CO2 e l’India al terzo, la classifica di emissioni per capita è molto diversa: ai primi posti di questa classifica ci sono paesi produttori di petrolio, seguiti da alcune delle principali potenze occidentali, come gli Stati Uniti: una persona americana, canadese o australiana inquina in media molto più di una persona cinese o indiana.

Ciononostante, è senz’altro fondamentale invertire al più presto la tendenza di tutti i paesi, e forse un barlume di speranza in questo senso può darlo lo storico accordo siglato proprio tra Usa e Cina nei giorni della conferenza, nonostante i tanti altri motivi di tensione tra le due potenze.

Allo stesso tempo però è motivo di grande sconforto il mancato raggiungimento della promessa dei paesi più ricchi di stanziare 100 miliardi di dollari ogni anno per sostenere la transizione energetica dei paesi in via di sviluppo, che non hanno al momento i mezzi per attuarla con gli stessi ritmi (spesso proprio a causa del comportamento delle nazioni benestanti).

I risultati più solidi (sebbene anch’essi criticabili per timidezza o inadeguatezza) sono forse quelli annunciati nei primi giorni della Conferenza: l’impegno di oltre 100 paesi per fermare la deforestazione entro il 2030 e quello di circa altrettante nazioni per ridurre entro la stessa data l’emissione di metano del 30%.

Tecnicamente, Alok Sharma potrebbe non avere torno: sarebbe ancora possibile lavorare per limitare l’aumento di temperatura entro il grado e mezzo. Ma, come accade ogni anno alla fine del summit, la responsabilità viene ancora una volta addossata alla COP successiva, andando così in netta opposizione alle richieste di ricercatori, attivisti, chiese e osservatori di tutto il mondo. Anche il segretario dell’ONU Guterres parla di impegni insufficienti. E si fa molta fatica a trovare argomenti per smentirlo.