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The Forbidden Garden of Europe

È accettabile che una linea definisca chi è cosa stia da una parte e cosa deve stare dall’altra? Chi e cosa includere e cosa escludere?

The Forbidden Garden of Europe è un progetto che parla di piante, di alcune specifiche varietà che è proibito piantare e coltivare in Europa per via delle caratteristiche biologiche che metterebbero a rischio la flora autoctona. Piante in realtà presenti sul territorio perché portate in epoca coloniale da paesi lontani e ora su una lista di specie indesiderate.

Il progetto artistico è frutto delle riflessioni di Studio Wild, un collettivo formato da Tymon Hogenelst e Jesse van der Ploeg, artisti e architetti di base ad Amsterdam che di recente hanno portato la loro installazione, The Forbidden Garden of Europe, anche a Venezia.

I due artisti e architetti hanno cominciato a lavorare insieme da studenti e da due anni hanno uno studio; da cinque anni lavorano sul paesaggio e su concetti tra arte e architettura, scultura e altre forme artistiche.

Cosa vede il pubblico visitando l’installazione The forbidden garden of Europe?

«Si entra in uno spazio buio dove c’è una recinzione di stoffa blu che delimita l’installazione. The Forbidden Garden of Europe è un giardino di piante vietate da una precisa lista dell’Unione europea, che devono avere un passaporto per poter entrare in Europa e attraversarne il confine. Abbiamo trovato questo molto interessante e che richiamasse il modo in cui vengono gestiti i passaggi e gli spostamenti delle persone».

C’è stato un particolare evento o un pensiero che vi ha portato a questo progetto?

«Il nostro studio lavora molto sulla relazione tra architettura e ambiente, ancora studenti abbiamo partecipato a Manifesta, la biennale d’arte nomade, nel nostro caso a Palermo, e abbiamo cominciato la ricerca nel giardino botanico di questa città. Credo sia stato un colpo di fortuna trovare una lista di piante proibite; ci abbiamo pensato e ne abbiamo discusso per trovare il nostro punto di vista rispetto a questa politica».

Ovviamente questo progetto non parla solo di piante: è una metafora per dire cosa?

«È una metafora per dire diverse cose. Dà l’opportunità di parlare di politica e di confini, del modo in cui guardiamo la terra e in cui ci guardiamo a vicenda. Quello che abbiamo voluto applicare nel giardino è che noi, come persone, definiamo il modo in cui ci rapportiamo con gli altri creando dei confini e decidendo cosa succede all’interno di questa linea e cosa non includere. Se per esempio tracciamo una linea e diciamo “queste persone possono attraversarla, entrare nel nostro paese e queste altre non possono”, questo ha un effetto e cambiano le regole su questioni legate per esempio a chi può o non può pescare in un determinato fiume. Ci confrontiamo con una grande serie di cambiamenti di questi tempi e con questo giardino vogliamo provocare una discussione su come viviamo insieme e se queste regole contribuiscono sempre ad avere una società migliore».

Ci sono degli esempi pratici nel mondo botanico che esemplificano il paradosso per cui c’è qualcosa di strano nel decidere che alcune piante possono entrare e altre devono stare fuori?

«Sicuramente c’è qualcosa di strano. Noi siamo stati molto ispirati dal testo The planetary Garden di Gilles Clement, il quale si chiede se il confine dell’ecosistema è l’atmosfera. Crediamo abbia ragione, che tutto sia interconnesso, che ci sia una rete in cui ogni ecosistema supporta gli altri e che noi come umani, siamo la specie più infestante sul pianeta. L’introduzione della maggior parte di queste specie è dovuta alle nostre azioni ed è in un certo senso ironico e quasi ipocrita che noi in quanto specie umana decidiamo quali piante possono o non possono essere piantate».

Queste piante da dove vengono e dove saranno spostate dopo l’installazione?

«Vengono da posti diversi, dal Sud America, Asia, Nord America, e sono piante che hanno già viaggiato secoli fa durante le colonizzazioni e sono state portate in Europa per diverse ragioni, principalmente per ragioni economiche o per la loro bellezza. Molte di queste piante sono qui da molto tempo, centinaia di anni. Noi collaboriamo con l’orto botanico di Padova, che ha giardino botanico universitario più antico d’Europa. Loro hanno alcune di queste specie e hanno una sorta di pass per crescere queste piante. Alcune di quelle di cui parliamo erano già nel loro giardino».

L’arte per voi è decisamente un’azione politica. Questo concetto è più forte in questo particolare momento della storia?

«Pensiamo che l’architettura sia sempre politica. Credo che l’abbia detto il famoso architetto brasiliano Oscar Niemeyer: è parte del lavoro; ma dopo la pandemia da Covid 19 crediamo servano nuove idee, che ci sia una svolta per cui dobbiamo ripartire e ricalibrare il nostro lavoro. Probabilmente è più urgente portare avanti il discorso politico».

 

Foto dal sito studiowild.nl