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La grande Margaret Bourke-White

Pioniera del fotogiornalismo, tra le prime donne a fare della fotografia la propria professione, e coraggiosa avventuriera: si tratta di Margaret Bourke-White. Donna volitiva che sembra essere riuscita a scrivere da sé la propria storia, in un’epoca in cui per le donne non era certo scontato, con grande determinazione e mettendo la propria passione e la propria carriera prima di tutto.

Ha cominciato a lavorare da sola, aprendo uno studio, prima a Cleveland, poi a New York; dal 1937 ha collaborato con la rivista Life, che è stata la sua seconda casa, per la quale ha realizzato la prima copertina e il primo reportage fotografico.

A lei è dedicata una mostra al Museo di Roma Trastevere, “Prima, donna. Margaret Bourke-White”, esposta fino al 27 febbraio 2022. Il percorso è diviso in capitoli, ognuno dedicato a un reportage, che rappresenta anche una fetta della sua vita professionale e umana. La visita è accompagnata da alcuni brani tratti dalla sua autobiografia, quasi come fosse la sua voce che fa seguire il percorso, fino a sentire e vedere davvero la grande fotografa alla fine della visita, attraverso un piccolo filmato della fine degli anni ‘50: la registrazione di una trasmissione degli Stati Uniti dove viene intervistata. La mostra è una ricca retrospettiva composta da 100 scatti che ripercorrono la sua carriera e la sua vita curata da Alessandra Mauro, che abbiamo intervistato.

Qual è stato l’ambiente che ha permesso a questa donna di diventare così indipendente?

«Io credo che molto sia stato dato dal suo essere incredibilmente volitiva. L’ambiente fotografico a quel tempo era un ambiente molto maschile, non erano tante le donne. Tradizionalmente se la donna faceva fotografie si trattava di ritratti in studio, non lavori da prima pagina o da “fronte caldo”. Nasce proprio nel periodo di Margaret Bourke-White la possibilità di andare dove avviene la realtà; nel suo caso lei se l’è guadagnato sul campo questo diritto. Non è stata la sola, pensiamo prima di lei a Gerda Taro o, contemporaneamente, a lei Lee Miller. Bourke-White però lo ha fatto con una costanza che poche altre hanno avuto, in un mondo estremamente maschile».

Quali sono i grandi reportage che ricorda questa mostra?

«Ricorda innanzitutto il lavoro che lei ha fatto sulle fotografie industriali, quello che viene chiamato il Corporate, un genere un po’ trascurato perché tutti identifichiamo la fotografia come documentazione della realtà. Però in realtà è un lavoro molto importante anche quello, sulle superfici, sul cercare di rendere affascinati, magnifiche delle lamiere o dei fili di rame, cose che apparentemente non lo sono. Un tipo di lavoro molto vicino alla foto pubblicitaria in cui lei riesce a trovare un approccio con l’oggetto da fotografare, uno studio della luce e della composizione, che poi può aiutare in differenti progetti. Tra questi i grandi reportage, come quello sul Sud America del 1936, afflitto e piegato dalla depressione o l’apertura dei campi di concentramento a Buchenwald; poi Ghandi ripreso poche ore prima che morisse in un momento così particolare dell’India, durante la sua separazione dal Pakistan poco dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Questi sono alcuni dei suoi lavori da cui emergono le sue immagini, quasi astratte, della realtà che vengono proprio da questa abitudine a lavorare sugli oggetti. Questo si nota soprattutto con l’America vista dall’alto: immagini splendide dei campi arati, o dei cappelli delle persone che camminano a New York».

La parte più toccante della mostra sembra essere l’undicesima sezione. Ce ne può parlare?

«Si tratta della sezione più intensa perché è quella in cui lei, tra la fine degli ‘50 e l’inizio degli anni ‘60, si scopre malata di Parkinson. All’inizio non capisce bene cosa sia questa strana malattia che le irrigidisce le articolazioni, non riesce più a muovere bene le mani, poi le viene diagnosticato il Parkinson in un momento in cui ancora i farmaci e le cure erano a un livello sperimentale. Lei però, indomita, cerca di combattere questa ultima grande sfida e fa di tutto, addirittura si sottopone a un’operazione molto pionieristica che all’inizio sembra riuscire a sconfiggere il male; poi si sottopone a un lungo momento di riabilitazione. Lei che aveva sempre tenuto al suo aspetto fisico, all’essere bella ed elegante, in questo momento di fragilità e di lotta estrema sente ugualmente il bisogno di mostrare quel che lei è diventata e farlo vedere anche agli altri, per far capire come la sua lotta può essere una lotta condivisa. Chiede a un suo amico fotografo di riprenderla nella sua fragilità, mentre fa gli esercizi, quando con i capelli cortissimi guarda in macchina, quando per la prima volta dopo tanto tempo riesce di nuovo a tenere in mano una macchina fotografica. Queste immagini la rafforzano e rafforzano il personaggio che lei ha creato, che è talmente forte e convinta di sé, che si può permettere anche di mostrarsi fragile. Questo penso che sia anche una grande lezione per tutti».

 

Foto di Ur Cameras, Margaret Bourke-White e i suoi scatti sui campi di concentramento