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Georges Brassens amante dell’umanità

Ero nei pressi di Parigi, quel 29 ottobre 1981, il giorno in cui morì Georges Brassens, ospite dell’amico che da due anni aveva cominciato a farmi conoscere i suoi dischi, registrati su audiocassette oggi smagnetizzate. Le tre reti tv nazionali non cessavano di ripercorrere vita, concerti, interviste dello chansonnier che nasceva un secolo fa (22 ottobre 1921). In quei due-tre giorni ebbi modo di constatare da vicino la sincerità con cui la Francia tutta viveva il lutto per la scomparsa del suo più amato cantautore. Era una Francia in pieno movimento: la passione degli sportivi, con svolta epocale, stava passando dal rugby al calcio (esplodeva il genio di Michel Platini, che tre anni dopo portò la sua Nazionale alla conquista del Campionato europeo) e venti giorni prima (il 9 ottobre) il presidente Mitterrand, eletto da pochi mesi, aveva promulgato la legge che aboliva la pena di morte; la ghigliottina cessava la propria lugubre funzione.

Perché avvicinare, fra i tanti possibili, due temi così lontani, uno un po’ futile e uno così drammatico? Ebbene, proprio perché accostandosi alle canzoni di Brassens (e all’influenza che ebbe su Fabrizio De André) si vede come egli, rifacendosi alle ballate di Villon e via via ad autori e poeti più vicini nel tempo, abbia accostato, da buon cantastorie, il sacro e il profano, il tono graffiante e quello sussiegoso, la metafisica e l’erotismo, la materia elevata e quella triviale, l’affermazione di principio e lo sberleffo. Il tutto sempre con gran serietà: far ridere è difficile, richiede un approccio professionale (è la differenza che vediamo fra i programmi di Roberto Benigni e i filmini costruiti sulle barzellette), richiede un contegno.

E contegno significa innanzitutto la proprietà della mise. Qualche anno dopo (1985) avremmo imparato, con Quelli della notte, a chiamarlo look. Ma era, in parole povere, il modo di presentarsi al pubblico, e prima di tutto a se stessi. Brassens “era” (più che aveva) un corpaccione grosso, non molto alto forse, ma di spalle larghe, un po’ come il Maigret di Gino Cervi. Nei filmati dei concerti, accompagnato da una seconda chitarra e dal fido Pierre Nicolas al contrabbasso, stava con la chitarra al collo, il piede su una sedia, fisso, vestito di scuro, a volte con un papillon. Sapeva di fare un’operazione importante, anche se alcune delle sue canzoni potevano far sorridere e sghignazzare (con la stessa compunzione Roberto Murolo portava in scena la grande canzone napoletana). Serio, quasi rigido. Tutto compreso nel proprio ruolo, che era di far ridere in maniera dotta, non foss’altro che per i riferimenti a storia e letteratura patria, per l’impiego di testi di Paul Fort e Lamartine, Victor Hugo, Verlaine e Aragon. Ma anche per la costruzione dei versi, basati su melodie e ritmi molto “jazzabili”, e su una metrica raffinatissima, a cui molto deve Paolo Conte.

Poi, i temi: l’amore fra esitazioni, i sotterfugi (approfittare di un improvviso temporale per accompagnare una ragazza con il proprio ombrello – La chasse aux papillons), vite borderline vissute da buoni diavoli; la gioia di stare con gli amici, il rimpianto per gli amori passati e la cura verso i morti (Pensées des morts, Le fossoyeur); la satira un po’ anarcoide contro il potere prevaricante e disumano (Le gorille, tradotta da De Andrè e – con tante altre – da Nanni Svampa in milanese, mette proprio in scena un giudice che mandava al patibolo un condannato); la solidarietà fra poveri: la bellissima Chanson pour l’auvergnat in cui un poveraccio ringrazia chi non applaudiva quando le guardie lo portavano via; l’avversione per la guerra e le marce militari; il rifiuto di Morire per delle idee (ancora in traduzione da De Andrè). Temi universali; e d’altra parte di aspirazioni e frustrazioni, passioni e gelosie è intessuta la stessa Bibbia, vero codice universale di tipi umani: basta leggerne le “riscritture” di Gioele Dix per rendersene conto. Nei Salmi e in Giobbe si possono trovare i toni della preghiera nota come Je vous salue, Marie, quando si accenna al lamento del «giusto, considerato alla stregua degli assassini»

E poi c’è la materia religiosa: Brassens la raffigura spesso per sbeffeggiarla, ma sempre con una meticolosa documentazione alla base, sapendo ciò che dice. Per mettere in ridicolo, bisogna conoscere: così il regista Luis Buñuel, che tante volte ha irriso la religione, era ben consapevole dei “valori” che dichiaratamente rifiutava, e godette infatti di gran rispetto da parte della critica cattolica. Brassens irride determinati personaggi come il seminarista (Fernande), scivolando addirittura nello scabroso (La religieuse). Di contro ci sono i sentimenti di solidarietà fraterna, lo sguardo indulgente, la pietà personale. E qui il rischio lo corrono i credenti e le credenti, lo stesso che si manifesterà alla morte di De André: quello di volersi annettere, a tutti i costi, un uomo di cultura o di spettacolo, sempre dichiaratamente non credente, sulla base di qualche valore umano che si ritrova anche nell’etica cristiana. Può capitare, e capita, che i migliori sentimenti di solidarietà, accoglienza, anche di carità vedano credenti e non credenti come compagni di strada, uniti in missioni umanitarie più che mai necessarie nello scombinato mondo in cui viviamo. Ma non si può far dire a qualcuno ciò che non ha voluto dire, e soprattutto non si può ricondurre la vita cristiana alla pratica di alcuni “valori”, anche i migliori, dimenticando per strada le motivazioni di fede alla base di questi ultimi.

In proposito Brassens, che era uomo di grande onestà intellettuale, ci dà una gran lezione con una canzone (Le mécréant, 1960) in cui si rifà alla massima di Pascal di “fare come se si avesse la fede”, nell’attesa che essa si presenti effettivamente di fronte al protagonista miscredente. Quest’ultimo (l’autore stesso) ci prova, si atteggia a fervente musicista, ma quando alcune signore gli chiedono di intonare un inno sacro, egli non trova meglio che cantare… Il gorilla e un’altra delle più irriverenti canzoni, con grande scandalo da parte delle beghine. Cade la maschera, dunque, e Brassens ammette lucidamente: la fede, o verrà oppure non verrà. È proprio così, non è solo questione di chiesa o di liturgia.

Ciò non impedì a Brassens di porre la questione della morte (il vero grande tema, in realtà di tutta la sua opera) e del presentarsi di fronte a Dio: il Padreterno, nella canzone del Testamento (1956) gli dice benevolmente, mettendogli una mano sulla spalla: dì, vai un po’ a vedere lassù se io ci sono… Un momento che chiunque vorrebbe veder arrivare il più tardi possibile, e infatti il protagonista risponde che prenderà le chemin des écoliers, la strada più lunga possibile. Brassens, grande amante dell’umanità, poteva non avere fede (e non l’aveva), ma aveva un grande rispetto per la fede degli altri, a meno che quest’ultima li rendesse collusi con il potere… allora, apriti cielo, erano lazzi e sberleffi.

 

Foto di Fagairolles 34